venerdì 30 settembre 2011

Referendum, oltre un milione di firme "E' un miracolo popolare"

La consegna in Cassazione dei 200 scatoloni. Il via liberà arriverà entro il 10 dicembre, poi il passaggio alla Corte costituzionale per l'ammissibilità. Il voto la prossima primavera. Parisi loda il lavoro corale: "Nessuno ormai difende più il Porcellum"

E' "un miracolo popolare": il comitato referendario consegna oggi alle 12 in Cassazione 1.210.466 firme, raccolte in soli due mesi e sistemate in 200 scatoloni, per chiedere l'abrogazione del porcellum 1. Quota ben oltre le 500mila richieste e ben oltre le 700mila considerate la soglia di sicurezza, al netto delle possibili contestazioni in Cassazione. Il presidente del comitato, Andrea Morrone, nel corso di una conferenza stampa alla Camera, esulta, ma ricorda che è "solo l'inizio".

Il via libera della Cassazione arriverà entro il 10 dicembre, poi ci sarà il passaggio alla Corte costituzionale, che valuterà l'ammissibilità senza poter far riferimento a precedenti referendum sulla legge elettorale, quindi sarà il momento della campagna referendaria e il voto si terrà la prossima primavera, tra il 15 aprile e il 15 giugno, sempre che le camere non vengano sciolte anticipatamente. Marrone spiega che questo, quanto a firme raccolte, è "il secondo risultato in assoluto nella storia del referendum". Ringrazia il "gruppo unito" delle forze del comitato 2 e ricorda che "il 10 per cento delle firme è dovuto al contributo dei comuni".
Anche Arturo Parisi non nasconde il proprio entusiasmo ed esalta  "il lavoro corale" 3 - di Pd, Idv, Sel,
Partito liberale, Popolari (ex asinello) e Rete referendaria di Segni - parlando di firme sottoscritte dai cittadini "con rabbia e indignazione", ma anche di "speranza" per il futuro. Nessuno ormai "difende più il porcellum", continua l'ex ministro, quindi il prossimo Parlamento non deve essere rieletto con l'attuale elegge elettorale. Infine, Antonio Di Pietro esorta la politica a cambiare la legge elettorale: l'Idv pone tre condizioni: "incandidabilità per i condannati; chi è sotto processo non può ricoprire ruoli di governo e chi fa il parlamentare deve sospendere la propria attività professionale".

Vogliono liquidarci. Dimostriamogli che non glielo lasceremo fare

In queste settimane si giocano il futuro e la possibilità di sopravvivenza di Liberazione. E con essa delle oltre cento testate giornalistiche, nazionali e locali, che verrebbero inesorabilmente falciate se il Fondo per l'editoria, già drasticamente ridotto negli ultimi anni, venisse ulteriormente decurtato. Non di qualche euro ma, come al momento dicono le poste messe a bilancio, della metà: dai 180 milioni del 2010 ai 90 del 2011. Ora proveranno a spiegarci che in un quadro di tagli alla spesa pubblica come quelli che il Paese è chiamato a sopportare, anche l'editoria deve fare la sua parte. Somma ipocrisia. Non soltanto perché la riduzione delle competenze del Fondo hanno assunto proporzioni neppure lontanamente paragonabili ai tagli "lineari" imposti dal governo con la manovra, ma perché il pluralismo e la libertà di informazione, elementi costitutivi e irrinunciabili della democrazia, dovrebbero pur valere un pugno di quattrini. E' persino superfluo dedicarsi a dimostrare come ciò che si spenderebbe in ammortizzatori sociali per offrire qualche tutela alle 4.000 persone che a seguito della chiusura seriale di decine di testate perderebbero il lavoro supererebbe ampiamente le risorse necessarie per reintegrare il Fondo. E' superfluo perché il problema che abbiamo di fronte non è - con tutta evidenza - economico o contabile, ma politico. L'articolo 21 della Costituzione recita che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di informazione». E il Fondo per l'editoria fu appunto costruito, nei primi anni ottanta, proprio per evitare che questa prescrizione rimanesse nient'altro che una petizione di principio, considerato che fare un giornale vero costa e che, in assenza di un sostegno pubblico, finirebbero per andare in edicola solo ed esclusivamente fogli con alle spalle editori e finanziatori ricchi, gruppi industriali e finanziari espressione di precisi interessi. Quanto poi accade con i flussi pubblicitari - non solo quelli di provenienza privata, ma anche quelli degli inserzionisti istituzionali - fa capire come si può strangolare l'editoria libera e indipendente. Pressoché tutta la pubblicità viene infatti drenata da pochi grandi gruppi editoriali. Ci sono quotidiani che su sessanta pagine ne impegnano trenta con la pubblicità. A noi, ed ad altri come noi, non restano neppure le briciole. Insomma, occorre capire che lor signori stanno in questi giorni provando a compiere - sul terreno dell'informazione - quello che attraverso la legge elettorale già è avvenuto sul piano della rappresentanza politica istituzionale: spegnere le voci sgradite, quelle non addomesticabili, non manipolabili. Per piccole ed oscurate che siano, esse danno comunque fastidio, impediscono che vengano soppressi punti di vista critici e che pezzi di realtà sociali e politiche non omologati al mainstream vengano cancellati. In questi anni si è ripetutamente quanto inutilmente tentato di selezionare i destinatari del Fondo, per evitare che testate dotate di autentiche redazioni, di dipendenti, giornali veri, insomma, che vanno regolarmente in edicola, con un pubblico di lettori altrettanto vero e consolidato, convivessero con profittatori del tutto privi di tutti questi requisiti. Avventurieri che lucrano indebitamente su risorse pubbliche che dovrebbero essere loro precluse. Il paradosso è che, in assenza di criteri rigorosi di assegnazione del Fondo, i giornali degni di questo nome saranno cancellati, mentre le decine di Lavitola che affollano questo ginepraio senza regole, sopravviveranno, potendosi avvalere - come ognuno può intuire - di altri munifici benefattori che correrebbero in loro soccorso potendo attingere a ben muniti forzieri: così si butta il bambino e si tiene l'acqua sporca. Ora, è dunque evidente che noi non questuiamo elemosine, ma rivendichiamo un diritto. E difendiamo il pluralismo dell'informazione. Che «non si mangia», come direbbe Tremonti, ma che è un cardine della democrazia.
In questi giorni cruciali noi daremo battaglia, senza risparmio, e mettendo in conto, se necessario, anche atti clamorosi. Lo faremo insieme agli altri giornali come noi sotto schiaffo, e insieme alle associazioni sottoscrittrici del del documento che oggi pubblichiamo.
Punto e basta? No! Qui finisce un discorso e se ne apre un altro, che rivolgo direttamente ai nostri lettori, alla comunità politica che si riconosce nella nostra impresa, nel partito che ci edita. Sì, cari compagni e care compagne, perché se il sostegno pubblico al nostro giornale è un diritto che a buon titolo rivendichiamo, con altrettanta e certo non minore determinazione, questa necessità dovrebbe essere avvertita da ciascuno e da ciascuna, come un imperativo. Non gliela fai a vincere l'accanita resistenza che abbiamo di fronte, se tu per primo, se tu per prima, non investi nella tua missione, in ciò in cui credi, o non lo fai a sufficienza. E diventa poco credibile lo stesso ambizioso ingaggio nella rifondazione comunista se non riesci, a partire dalle tue forze, a tenere in vita il tuo giornale, il solo veicolo di controinformazione e di critica politica che quotidianamente arriva - nelle edicole, con la posta oppure on line - in tutto il Paese.
E allora, mentre battiamo il chiodo perché sia garantita la congruità del finanziamento pubblico, dobbiamo noi, noi comunisti, compiere l'impresa più grande. Che vuol dire tre cose: dare impulso alla campagna di abbonamenti, per arrivare, a fine anno, a quota 1500, il doppio di quelli sottoscritti alla data odierna; promuovere la sistematica diffusione del giornale, in particolare l'edizione domenicale, attraverso un vero e proprio piano che accompagni la campagna congressuale; lanciare una sottoscrizione straordinaria, di proporzioni e rilevanza tali da compensare il colpo di scure che dovesse abbattersi su di noi. Questo comporta - per essere chiari - che sappiamo recuperare un milione di euro. E' possibile ottenere che mille persone (oltre a tutti/e coloro che quotidianamente si tolgono di tasca anche piccole somme per tenerci in vita) investano mille euro su Liberazione?
Nelle mie peregrinazioni domenicali, per le feste che questa estate il partito ha organizzato un pò ovunque in Italia, ho incontrato centinaia di persone che rappresentano un formidabile giacimento di energie, una risorsa politica e morale a cui oggi occorre rivolgersi come nei momenti estremi.
Il governo, i potentati che ammorbano l'aria di questo Paese, ed anche quanti pensano sia giunto il momento di disarcionare il Cavaliere, sono però solidalmente uniti nel volerci annientare. Ebbene, mandiamogli a dire, soprattutto dimostriamogli, che non glielo lasceremo fare.

di Dino Greco (il fatto quotidiano)

mercoledì 28 settembre 2011

Processo per il pestaggio di Bonsu:
il pm chiede per i vigili fino a 9 anni di carcere

Articolo da "Il fatto quotidiano", segnalato da Simone Rossi.
Il link all'articolo originale qui.


Processo per il pestaggio di Bonsu: il pm chiede per i vigili fino a 9 anni di carcere La requisitoria durissima e richieste di condanna esemplari: gli atti più gravi sono l'aspetto razziale ("diventa spacciatore solo perché negro") e il falso ideologico. "Nessuno tra gli imputati in aula si è alzato per chiedere scusa"La pm Roberta Licci della procura della Repubblica di Parma ha chiesto pene che vanno da un minimo di sei anni e nove mesi a un massimo di nove anni e tre mesi di reclusione per gli otto agenti della polizia municipale accusati tra l’altro del pestaggio, degli insulti razzisti e di sequestro di persona nei confronti del giovane studente ghanese Emmanuel Bonsu Foster.

Il ragazzo fu arrestato “illegittimamente” dal nucleo di pronto intervento della municipale il 29 settembre del 2008, nel corso di un’operazione antidroga nel parco Falcone e Borsellino e poi malmenato e insultato a lungo.

L’accusa ha argomentato per circa otto ore le ragioni per le quali gli otto imputati devono essere condannati. “Emmanuel Bonsu è il ‘negro’ che diventa a un certo punto di questa storia il palo di uno spacciatore soltanto perché è un ‘negro’. L’aggravante razziale contraddistingue questa vicenda”. Così in uno dei passaggi della sua requisitoria la pm Licci.

Il sostituto ha puntato il dito, in particolare, nei confronti del malinteso spirito di corpo che ha animato tutti gli imputati a giudizio sin dalle prime battute della vicenda Bonsu. “Ancora oggi”, ha detto, “non si sa chi ha colpito all’occhio sinistro Bonsu. In quest’aula nessuno degli imputati si è finora alzato per dire mi dispiace. Gli agenti, l’ispettore e il commissario capo a giudizio hanno posto in essere una continua mistificazione degli atti per coprire quanto era accaduto e trarre in inganno l’autorità giudiziaria”.

Per l’accusa il reato più grave è “il falso ideologico aggravato” perché “commesso da pubblici ufficiali che dovrebbero avere, invece, a cuore il bene comune”. Per quattro degli imputati la pm ha chiesto l’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici. Si tratta di Mirko Cremonini (otto anni e sette mesi), Pasquale Fratantuono (nove anni e tre mesi), Stefania Spotti (otto anni e otto mesi) e Simona Fabbri (nove anni). Per questi imputati richieste anche le pene più elevate. Per gli altri, oltre alla detenzione, chiesta l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.

sabato 24 settembre 2011

Rassegna speciale: il riconoscimento della Palestina all'ONU:
le parti più importanti del discorso di Mahmud Abbas

Da "El País", 23/09/2011

Traduzione di Monica Bedana

"Siamo l'ultimo popolo occupato"

Questi sono i passaggi più rilevanti dello storico discorso el presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, Mahmud Abbas, all'Assemblea Generale dell' ONU, per reclamare il riconoscimento come Stato di pieno diritto.

- “Dopo 63 anni di sofferenza, basta, basta, basta. E' ora che il popolo palestinese ottenga la sua libertà ed i suoi diritti. E' arrivata l'ora della primavera palestinese, dell'indipendenza”.

- “E' il momento della verità. Il mio popolo sta aspettando di ascoltare la risposta del mondo. Siamo l'ultimo popolo occupato. Permetterà il mondo ad Israele di stare al di sopra della legge? Ciò è accettabile?”

- “Credo che nessuno che abbia una coscienza possa respingere la nostra richiesta di essere uno Stato indipendente”.

- “Tendiamo le nostre mani al popolo ed al Governo di Israele per raggiungere la pace. Costruiamo insieme in modo urgente un futuro per i nostri figli, costruiamo i ponti del dialogo al posto dei controlli e dei muri di separazione”.

- “I nostri sforzi non puntano ad isolare Israele né a delegittimarla, bensí ad ottenere legittimità per il popolo della Palestina. Vogliamo solo delegittimare l'azione dei coloni”.

- “Negli anni scorsi abbiamo bussato a tutte le porte e percorso tutte le strade. Abbiamo preso in considerazione ogni idea ed ogni proposta. Tutti quegli sforzi sono stati frustrati dal Governo di Israele, che ha rotto i negoziati di pace”.

- “Il Governo di Israele continua a confiscare la terra dei palestinesi attraverso gli insediamenti e accelerando la costruzione del muro. Continua le sue aggressioni alla striscia di Gaza”.

- “Negli ultimi anni, gli atti criminali contro i nostri cittadini si sono intensificati. Oggi hanno assassinato un palestinese che stava facendo una manifestazione pacifica. Sono responsabili dei crimini dei coloni. Questa politica distruggerà la soluzione dei due Stati”.

- “Continueremo la nostra resistenza pacifica all'occupazione di Israele, alle sue colonie, alla sua politica di apartheid”.

- “Aderiamo alla rinuncia della violenza e al rifiuto del terrorismo, in particolare del terrorismo di Stato”.

- “L'OLP è pronto a tornare al tavolo dei negoziati se c'è una sospensione completa delle attività dei coloni”.

- “Abbiamo un solo obiettivo: poter essere. E saremo”

Rassegna speciale: il riconoscimento della Palestina all'ONU
le parti più importanti del discorso di Benjamin Netanyahu

Da "El País", 23/09/2011

Traduzione di Monica Bedana


"La verità è che i palestinesi vogliono uno Stato senza pace"

Alcuni minuti dopo il discorso del presidente palestinese, Mahmud Abbas, è toccato il turno al presidente di Israele, Benjamin Netanyahu. Questi sono stati i passaggi chiave del suo intervento all'Assemblea Generale dell'ONU.

- “Abbas ha detto che la fonte degli scontri sono gli insediamenti. Il nostro conflitto dura da più di mezzo secolo, da prima che ci fosse un solo colono. Il problema non sono gli insediamenti, che sono un risultato. E' un tema che bisognerà trattare e risolvere nei negoziati. La fonte del conflitto è che non riconoscono uno Stato ebraico, qualsiasi sia la sua frontiera”.

- “C'è una teoria che dice che se ce ne andiamo dagli insediamenti, arriverà la pace. Ce ne siamo andati dal sud del Libano e da Gaza. Cosa successe? I moderati non vinsero la battaglia sui radicali. Furono i radicali a divorare i moderati. E mi spiace dire che le truppe internazionali non hanno fermato i radicali in Libano e a Gaza”.

- “Israele è preparata ad avere uno Stato palestinese in Cisgiordania, ma non ad averne un altro a Gaza”.

- “C'è qualcuno a Ramala che vuole castigare gli ebrei con la morte. Questo è razzismo”.

- “Permettereste voi che ciò accadesse vicino alle vostre nazioni? Che ciò succedesse ai vostri familiari? Noi ricordiamo le amare lezioni di Gaza”.

- “I palestinesi devono ottenere la pace con Israele e dopo ottenere il loro Stato. Quando ci sarà la pace, saremo il primo Paese a riconoscere in questa sede la Palestina come Stato indipendente”.

- “La verità è che Israele ed io vogliamo la pace. Non possiamo raggiungere la pace con risoluzioni dell'ONU, bensí con negoziati. Noi vogliamo la pace. La verità è che i palestinesi vogliono uno Stato senza pace”.

- “Con i palestinesi cerchiamo una pace lunga e duratura. So che non è l'immagine che sempre si ha di Israele”.

- “Siamo l'unica democrazia reale in Medio Oriente. A volte, all'ONU, i villani sono stati protagonisti. Su 27 risoluzioni, in 21 Israele è stata condannata. Questa è una parte poco felice. Oggi spero che brilli il sole della verità, anche solo per pochi minuti”.

- “Non c'è pace, c'è guerra. Abbiamo l'Iran, che ha abbattuto l'Autorità Palestinese lí, attraverso il suo satellite, Hamas”.

- “Il mondo intorno ad Israele sta diventando un po' più pericoloso”.

- “Attenzione, perché la primavera araba si può trasformare in un inverno iraniano”.

- “Nel 2000 Israele fece una grande proposta di pace. Arafat la rifiutò. Nel 2008 fece una proposta ancora più grande e Abbas nemmeno rispose”.

- “Le nostre speranze di pace non hanno mai fine”.

- “Israele ha offerto pace da quando è nata, 63 anni fa. Continuiamo ad offrirla oggi. L'abbiamo raggiunta con l'Egitto e la Giordania. Con loro abbiamo fatto la pace”.

- “Oggi tendo la mano di nuovo, all'Egitto, alla Turchia, e lo faccio con rispetto e buona volontà; anche alla Libia e a Tunisi, con ammirazione perché tentano di costruire un futuro democratico, allo stesso modo dei Paesi del nord dell'Africa e a quelli della penisola araba che cercano un nuovo futuro”.

- “Continuo ad avere la speranza che Abbas sia mio compagno nella pace. Prima di venire a questa assemblea gli ho chiesto di tornare a negoziare senza condizioni. Non mi ha ancora risposto”.

- “Dobbiamo smettere di negoziare sui negoziati. Dobbiamo negoziare sulla pace. Deve forse continuare questo conflitto per generazioni?”.

- “Presidente Abbas, le offro la mano di Israele in segno di pace. Siamo due popoli figli di Abramo. Ci uniscono un patriarca, una terra. Che brilli la luce della pace”.

- “Siamo a migliaia di chilometri di distanza dalle nostre case, stiamo nello stesso edificio. Cosa ci impedisce di riunirci oggi e di iniziare e negoziare? Facciamolo subito”.

Rassegna speciale, 3: il riconoscimento della Palestina all'ONU

Articolo segnalato e commentato da Monica Bedana

"El mundo tiene la palabra", la parola passa al mondo
 articolo di Javier Valenzuela da "El País" del 23/09/2011


I negoziati con Israele per le trattative di pace non sono incompatibili con il riconoscimento dello Stato palestinese, a patto che venga definitivamente fermata la colonizzazione della Palestina: posizione ragionevole, perché non ci si mette a negoziare con qualcuno che ti continua a rubare il portafogli. L'autore ricorda che l'Assemblea Generale dell'ONU fu scenario anche delle famose parole di Arafat del '74: "Son venuto qui con un ramoscello d'ulivo e col fucile di chi lotta per la libertà. Non permettete che il ramo d'ulivo mi cada dalle mani". E ricorda anche che lo Stato di Israele basa la propria legittimità su una risoluzione dell'ONU, la 181, del 1947. Sarà che allora le risoluzioni dell'Assemblea Generale avevano molta importanza ed oggi non più? La seconda parte di quella risoluzione, che decretava anche la nascita di uno Stato palestinese, non si è ancora compiuta. Su una terra che è sempre appartenuta ad arabi (musulmani e cristiani) e che da 63 anni sta pagando le conseguenze dell'antisemitismo occidentale, dall'Inquisizione all'Olocausto, non lo dimentichiamo.

El mundo tiene ahora la palabra, no solo Israel y Estados Unidos, todo el mundo. En Nueva York, dirigiéndose a la Asamblea General de Naciones Unidas, Mahmud Abbas acaba de pedir que todos y cada uno de los países se pronuncien sobre si creen que los palestinos tienen derecho a disponer de un Estado propio en el 22% de lo que fue su hogar durante siglos, en los territorios ocupados por Israel en 1967: Cisjordania, Gaza y Jerusalén oriental, que sería la capital. "Esta es la hora de la verdad, nuestro pueblo está esperando oír la voz del mundo", ha dicho Abbas.

Esta demanda de aceptación de Palestina como miembro de pleno derecho de la ONU, ha señalado Abbas, no impediría una posible reanudación de las negociaciones con el gobierno de Israel. ¿Por qué habría de hacerlo? Basta, ha dicho Abbas, con que los israelíes cesen en seguir colonizando Cisjordania y Jerusalén Este para que las partes puedan volver a hablar directamente. Es una petición razonable: uno no negocia con alguien que sigue robándole la cartera.

En este mismo escenario, Arafat pronunció en 1974 sus famosas palabras "He venido aquí con una rama de olivo y el fusil de quien lucha por la libertad. No permitan que la rama de olivo caiga de mi mano". Hoy Abbas ya no ha hablado de ningún fusil, hace lustros que la OLP renunció a las armas; el sucesor de Arafat solo ha esgrimido una "mano tendida" a Israel para negociar la paz en base a la existencia de dos Estados en las fronteras de 1967, y una petición al conjunto de la comunidad internacional para que rompa el bloqueo en la solución del tumor primario de Oriente Próximo.

En las últimas semanas algunos propagandistas han intentado ningunear la posibilidad de que la Asamblea General de Naciones Unidas reconozca, aunque sea como observador, al Estado palestino. Es curioso que intenten hacer olvidar al mundo que Israel basa su legalidad y legitimidad internacionales en una resolución de ese mismo organismo, la 181, que en 1947 decidió la partición en dos Estados del entonces Mandato Británico en Palestina. A los judíos se les adjudicó entonces el 56% del territorio, a los árabes el 43% y Jerusalén fue declarada una entidad especial administrada por la ONU.

En Oh, Jerusalén, Dominique Lapierre y Larry Collíns contaron la ansiedad con que Ben Gurion y 650.000 judíos de Tierra Santa -la gran mayoría recién emigrados- vivieron el desarrollo de las votaciones de 1947 en Flushing Meadows, en las afueras Nueva York, y el júbilo con que terminaron celebrando la decisión de la Asamblea General. Escribieron Lapierre y Collins: "Toda la Jerusalén judía estaba despierta y manifestaba su alegría. Las sinagogas abrieron sus puertas a las tres de la madrugada y fueron invadidas por multitudes agradecidas. Hasta los judíos más agnósticos tenían aquella noche la impresión de sentir sobre ellos la mano de Dios (...). A través de toda Palestina, los judíos compartían el mismo regocijo. Tel Aviv, la primera ciudad judía del mundo, parecía una capital latina en una noche de carnaval. En cada kibutz la comunidad entera bailaba y rezaba".

Las decisiones de la Asamblea General tenían entonces mucha importancia. ¿Hoy ya no? Los hijos, nietos y biznietos de aquellos pioneros israelíes que bailaron cuando la Asamblea General aprobó la partición de Tierra Santa, rechazan ahora que ese mismo organismo reconozca, con más de seis décadas de retraso, el Estado palestino en un territorio mucho más pequeño que el que les asignaba la partición de 1947.

Cierto es que los palestinos, y el resto de los árabes, se opusieron entonces a la división de Palestina (no entendían por qué judíos venidos del exterior debían adueñarse de la mayor parte de una tierra habitada por árabes -cristianos y musulmanes- durante siglos; no aceptaban que fueran ellos los que tuvieran que pagar los platos rotos del antisemitismo occidental, de las inquisiciones, los pogromos y el Holocausto), y cierto es que durante lustros negaron el derecho a la existencia de Israel. Pero en 1967 el Israel surgido de la guerra de 1947-48 ocupó militarmente el resto de Tierra Santa, o sea, Jerusalén Este, Cisjordania y Gaza, y desde entonces los palestinos no tienen en su propio hogar histórico ni una sola pulgada independiente y soberana. Los subsiguientes fracasos de los métodos violentos de lucha llevaron ya hace tiempo a buena parte del pueblo palestino a aceptar resignadamente que Israel es indestructible y a comprender que sólo la acción pacífica puede darles alguna victoria.

Ya no sirven los viejos argumentos. El pretexto israelí de que los palestinos y los árabes querían "arrojar los judíos al mar" es obsoleto, hoy ya solo puede utilizarse tomando a una parte extremista por el todo. En su cumbre en Argel de 1988, la OLP aceptó la idea de la partición de Tierra Santa y, en consecuencia, la existencia de Israel, como acaba de recordar Abbas. En los acuerdos de Oslo de 1993, rubricados en la Casa Blanca de Clinton, esto se hizo absolutamente oficial. Países árabes como Egipto y Jordania tienen relaciones con Israel y la mismísima Liga Árabe, en el plan de paz que aprobó en Beirut en 2002, aceptó la idea de los dos Estados.

Solo falta, pues, falta materializar la segunda parte de la decisión de Naciones Unidas de 1947: construir el Estado palestino en los territorios ocupados desde 1967. Y esto es lo que ha pedido Abbas en nombre de unos palestinos más que hartos de los pretextos israelíes para prolongar las negociaciones y continuar con la colonización -han pasado 20 años desde el comienzo del "proceso de paz" en la conferencia de Madrid de 1991- y de la falta de neutralidad de Estados Unidos. Es una jugada valiente e inteligente que pretende romper el inmovilismo político y diplomático en este conflicto. El mundo tiene ahora la palabra. Todos y cada uno tienen que retratarse.

Rassegna speciale, 2: il riconoscimento della Palestina all'ONU

Articoli segnalati e commentati da Nicola Melloni

"Lettera aperta sulla Palestina",
Furio Colombo, Piero Fassino ed Emanuele Fiano da "Il Fatto Quotidiano"
L'articolo è disponibile cliccando QUI.

Il commento:

La "sinistra" cieca. Dietro un linguaggio dialogante e di apertura verso i palestinesi i cosiddetti amici di Israele mantengono la stessa posizione di sempre, partigiana e sdraiata su Gerusalemme. Solo Israele e Palestina possono raggiungere l'obiettivo: vero, ma questo vuol dire che non si vuole che la comunita' internazionale, l'ONU, prenda una posizione univoca - e pensare che i Fassino di turno si sono sempre appoggiati all'ONU per giustificare il loro interventismo militare. Solo i negoziati possono portare ad un esito positivo: nuovamente, una ovvieta', ma dunque, si capisce tra le righe, l'accelerazione per il riconoscimento dello Stato palestinese non serve a nulla. Di piu', la pace non puo' avvenire attraverso imposizioni: ed e' chiaro che l'imposizione sarebbe il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite della Palestina. Mentre, immaginiamo, la costruzione unilaterale di colonie non sarebbe una imposizione, il blocco di Gaza non sarebbe una imposizione, l'occupazione di territori non sarebbe una imposizione. Quelli, son dati di fatto. Mentre un appoggio, senza se e senza ma, all'esistenza della Palestina, che costringa Israele a rispettare le decisioni ONU sarebbe una imposizione.



"Soltanto la trattativa potrà portare allo Stato palestinese".

Intervista allo scrittore Avraham Yehoshua da "La Stampa" del 24/09/2011.
Leggila cliccando QUI 

Rassegna speciale, 1: il riconoscimento della Palestina all'ONU

"Obama ha scelto Bibi pensando alla sfida delle presidenziali"
Dal blog di Maurizio Molinari su "La Stampa", 24/09/2011

Articolo segnalato e commentato da Nicola Melloni
Obama, o della modestia politica: non e' importante fare la cosa giusta, ma solo la cosa utile

L’ opposizione al riconoscimento Onu dello Stato palestinese è il frutto di un cambio di marcia di Barack Obama sul Medio Oriente che nasce da ragioni di politica interna e irritazione nei confronti di Ramallah con la conseguenza di aprire una nuova fase di impegno negoziale che potrebbe portare presto il Presidente americano a recarsi in visita in Israele. Questo si evince da una serie di conversazioni con diplomatici che seguono da vicino l’agenda internazionale di Obama e con analisti del Medio Oriente dei centri studi di Washington. Il consenso è unanime sulla genesi della svolta: i motivi sono domestici. «Durante l’estate il Presidente si è reso conto che nel 2012 la rielezione si giocherà sull’economia e in particolare sull’occupazione - spiega Patrick Clawson, del Washington Institute - e di conseguenza ha deciso di abbassare il profilo su tutti i temi di politica internazionale, incluso il negoziato israelo-palestinese».

Larry Korb, responsabile delle questioni strategiche nel pensatoio democratico del «Center for American progress» di John Podesta, aggiunge: «Nel 2012 l’elezione finirà in un testa a testa, ogni settore dell’elettorato può rivelarsi decisivo e la Casa Bianca si è resa conto che in America c’è una percezione di Obama come Presidente più vicino ai palestinesi che a Israele mentre la grande maggioranza della popolazione, non solo gli ebrei, guarda con più favore a Israele che ai palestinesi». Ciò spiega perché nelle riunioni avvenute fra i consiglieri del Presidente per la redazione del discorso poi pronunciato all’Assemblea Generale dell’Onu a prevalere è stata la volontà di «riequilibrare la percezione di Obama nell’opinione pubblica americana» mandando un segnale diverso rispetto al passato.

Ma c’è dell’altro perché se l’approccio del pragmatico Ben Rhodes, lo speechwriter sui temi di sicurezza nazionale e strategia, ha prevalso su quello più liberal e pro-palestinese di Samantha Power, consigliere sulla politica estera, è stato in ragione del «disappunto di Obama nei confronti di Abu Mazen». Clawson lo riassume così: «In maggio Obama dicendosi a favore delle frontiere del 1967 per il futuro Stato palestinese aveva compiuto un importante passo verso Abu Mazen, che però anziché ricambiare con un’altrettanto significativa apertura negoziale ha scelto di andare in tutt’altra direzione, puntando sul riconoscimento dell’Onu». Questo passo ha causato un corto circuito fra Washington e Ramallah perché sostituire l’Onu alla trattativa bilaterale implica l’abbandono dalla formula negoziale sulla quale si basano gli accordi di Oslo del 1993, siglati sotto l’egida dell’amministrazione Clinton.

«Obama non ha mai avuto alternative al veto Onu - spiega un diplomatico americano - perché sostenere Abu Mazen avrebbe significato smentire Oslo, facendo saltare la cornice legale e politica del negoziato israelo-palestinese». La conseguenza è «che oggi Obama si è allontanato da ciò che realmente pensa sul Medio Oriente - sottolinea Larry Korb - e che ha espresso nel discorso del Cairo e in quello a favore confini del 1967».

Cosa avverrà adesso? La convergenza con Benjamin Netanyahu suggerisce che Obama potrebbe recarsi presto in visita in Israele, dove da tempo vuole andare, al duplice fine di continuare a ribilanciare la sua immagine pro-palestinese e di fare leva sul legame con Gerusalemme per tentare di ottenere con il sorriso le concessioni negoziali che ha invano inseguito esercitando forti pressioni. Tale prospettiva spiega anche il via libera di Obama alla vendita a Israele di 55 potenti bombe anti-bunker Gbu22 che nel 2005 l’amministrazione Bush aveva bloccato nel timore potessero servire ad attaccare l’Iran. Ma se i piani di viaggio restano in bilico, più sicuro appare lo scenario che si apre a Capitol Hill, dove il Congresso è determinato a includere gran parte degli 600 milioni di dollari annuali di aiuti all’Autorità nazionale palestinese nelle ingenti riduzioni della spesa governativa che saranno entro fine anno.«Questi tagli avranno conseguenze pesanti per l’amministrazione nei Territori governati dai palestinesi, porteranno ad un indebolimento delle forze di sicurezza - prevede Clawson - e ad un aumento delle violenze, complicando ulteriormente i rapporti con gli Stati Uniti».

"Giovane ammanettato e pestato a sangue"
Lettrice di "Repubblica"denuncia la violenza di un vigile urbano a Roma

Articolo segnalato e commentato da Nicola Melloni

Da "Repubblica" del 23/11/2011

Credibilissima la ricostruzione dei vigili...mentre ammanettato dietro la schiena la manetta ruota e colpisce pensa un po' il sopracciglio del ragazzo.
d'altronde ci sono testimoni, piu' di uno, ma il ragazzo e' stato processato per direttissima stamattina senza convocarli. questa e' la democrazia delle forze dell'ordine italiane...

Dopo la partita Roma-Siena: "In viale Angelico, intorno alle 22.40. Due motociclisti della municipale hanno fermato un ragazzo a bordo di uno scooter. Lo hanno fatto scendere, poi gli hanno messo le manette ai polsi. E uno ha iniziato a prenderlo a pugni e colpito al volto con il casco". Il comandante dei vigili urbani di Roma: il ragazzo era ubriaco, è stato lui ad aggredire. Il sindacato: "Si è ferito resistendo all'ammanettamento"
di GIOVANNI GAGLIARDI

"Due vigili urbani in moto ieri sera hanno ammanettato un ragazzo, poi uno di loro ha iniziato a picchiarlo. Lo ha anche colpito al volto con il casco. Quello che ho visto non potrò più dimenticarlo". Esordisce così, con la voce tremante dalla rabbia, una lettrice di Repubblica.it. Ha chiamato la redazione per raccontare il pestaggio di cui è stata testimone diretta. Ma il comandante dei vigili urbani di Roma contesta: il ragazzo era ubriaco, è stato lui ad aggredire. E nuovo testimone racconta: un vigile enorme prima l'ha ammanettato e poi lo ha preso a pugni. Nel tardo pomeriggio si saprà che il ragazzo si chiama Andrea Di Stefano e ha 18 anni.

Il racconto. "Ero andata allo stadio per assistere a Roma-Siena - racconta la testimone - poi, al termine, stavo percorrendo a piedi viale Angelico in direzione centro per andare riprendere la macchina che era all'altezza dell'incrocio con via Muggia e viale Carso. Saranno state circa le 22.40, quando ho notato due motociclisti della municipale che sfrecciavano: inseguivano un ragazzo a bordo di uno scooter. Avrà avuto diciassette, forse diciotto anni. Lo hanno fatto scendere. Erano concitati, su di giri, lo hanno strattonato e preso a spinte, poi gli hanno messo le manette ai polsi. A quel punto è iniziato il pestaggio".

La donna racconta che uno dei due agenti ha iniziato a prendere il ragazzo a pugni e a colpirlo con il casco in faccia. "Era una maschera di sangue - racconta ancora - aveva un occhio ridotto malissimo. Quel poveretto per la paura se l'è addirittura fatta sotto".

Durante il pestaggio si è formato un capannello di gente "dieci, forse quindici persone". Qualcuno ha anche ripreso le immagini con il cellulare. "Poi, in moto, sono arrivati altri colleghi dei due agenti - dice ancora la nostra lettrice - e hanno fatto cerchio intorno al ragazzo e agli altri agenti. E il giovane è stato caricato su una macchina di servizio che era giunta nel frattempo. La polizia è arrivata 20-30 minuti dopo, quando era già tutto finito. La macchina con il ragazzo era andata via, eravamo rimasti solo noi testimoni ad inveire contro gli agenti della municipale rimasti sul posto. Avevano fatto andare via anche l'agente del pestaggio. E' arrivata anche un'auto blu dei vigili urbani, credo fosse qualche dirigente perché aveva l'autista, ma è andata via quasi subito. In tutto c'erano almeno una decina di agenti. Cercavano di mantenere la calma, mentre alcuni di noi spintonavano e urlavano".

Stamattina al commissariato Prati qualcuno ha iniziato a farsi domande sull'accaduto. Per ora non risultano denunce, ma c'è un'annotazione della pattuglia arrivata sul posto: racconta di un pestaggio, riferito da alcuni testimoni, ad opera di un agente della municipale. Per ora senza nome.

Il processo al ragazzo. E' stata intanto fissata per il 3 novembre prossimo l'udienza del processo che vede imputato il ragazzo. Andrea Di Stefano deve rispondere di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale: nel capo di imputazione si fa riferimento al rapporto degli agenti della polizia municipale ed ad alcune testimonianze rese dagli operanti che hanno effettuato il fermo. Il giovane è stato rimesso in libertà dopo una notte passata in camera di sicurezza. Il suo difensore ha chiesto il rinvio per poter prendere visione degli atti e annunciato il ricorso al rito abbreviato. Nel corso dell'udienza di convalida, in base a quanto riferiscono fonti giudiziarie, il ragazzo avrebbe "sostanzialmente" confermato la versione fornita dagli agenti della municipale. Il legale del ragazzo si è riservato di acquisire le testimonianze riportate da Repubblica.it per un eventuale esposto.

La ricostruzione del comandante dei vigili urbani. In mattinata, dopo la diffusione della notizia, è anche arrivato la replica del comandante dei vigili di Roma, Angelo Giuliani. Giuliani, che si dice "fortemente indignato" per quanto riportato da Repubblica.it sull'episodio, non smentisce il merito della denuncia - pugni e colpi di casco in faccia a una persona ammanettata - ma fornisce una diversa ricostruzione: "La verità documentata da verbali e da atti processuali - afferma - è che il ragazzo che viaggiava a bordo dello scooter in viale Angelico, senza patente e ubriaco, ha dapprima inveito contro un signore che portava a passeggio il suo cane, e poi ha aggredito a male parole e minacciato due vigili urbani lì presenti. Quando questi hanno cercato di fermarlo, il ragazzo ha sferrato un pugno in faccia contro uno dei vigili, che è stato refertato con dieci giorni di prognosi. A quel punto la polizia municipale - aggiunge Giuliani - lo ha ammanettato. In mattinata il ragazzo è stato sottoposto a un processo per direttissima dove è stato confermato l'arresto per gravi indizi di colpevolezza ed ammissione dell'arrestato". "Comunque la partita Roma -Siena - conclude - si è svolta senza problemi e incidenti e questo episodio è assolutamente estraneo all'evento sportivo".

"I vigili non stanno li per farsi picchiare - aggiunge successivamente Giuliani - Hanno reagito ad un'aggressione ed è nata una colluttazione col ragazzo". Il comandante dei vigili. "Il ragazzo stamani in tribunale ha ammesso di aver cominciato lui, ha chiesto scusa ai vigili. Lui li ha aggredito a pugni, loro hanno solo reagito per fermarlo", continua Giuliani. "Il ragazzo, tifoso della Roma - aggiunge - era alterato perché la sua squadra aveva solo pareggiato. Forse per questo ha reagito aggressivamente. Quando sono arrivati i suoi amici hanno ripreso solo la seconda parte della colluttazione ovvero quando i vigili hanno reagito alla sua violenza".

Il sindacato dei vigili. "Le cose non sarebbero andate come vengono raccontate dalla testimone oculare", dice usando il condizionale Alessandro Marchetti, Segretario Generale Aggiunto del Sulpm (Sindacato Unitario LAvoratori Polizia Municipale), di cui riportiamo la dichiarazione integrale. "Oltre a quanto già riferito dal comandante del corpo vorrei precisare che intanto il personale della polizia locale era fermo al semaforo per il deflusso dallo stadio e le moto erano parcheggiate lungo il marciapiede. I caschi erano sulle moto e indossavano i berretti e non vi è stato nessun inseguimento".

Quanto al sangue sul volto del ragazzo, Marchetti spiega che "si è ferito in quanto ha opposto resistenza all'ammanettamento. Le nostre manette hanno degli anelli che, se urtata la mano che le tiene per opporvi resistenza, le fanno similmente roteare e quindi nel divincolarsi una parte di questa manetta è finita addosso al viso del ragazzo e precisamente sul sopracciglio sinistro procurandogli un taglio suturato con due punti in ospedale, ecco dunque il motivo del sangue sul volto".

Inoltre il sindacalista racconta che "durante tutta questa vicenda era presente anche il padre del ragazzo che anzi avrebbe cercato persino di calmare il figlio. Nessun pestaggio dunque, ma solo, ci viene riferito dagli operanti, una signora che inveiva contro gli agenti invitandoli ad andare a pestare il "loro" presidente del Consiglio!! In tribunale poi, nel processo per direttissima il ragazzo, assistito dal suo avvocato di fiducia, ha confermato la versione raccontata dai poliziotti municipali; tant'è che è stato richiesto il rito abbreviato per i reati contestati. L'agente intervenuto ha riferito che al termine del dibattimento processuale il ragazzo ed il genitore hanno cordialmente colloquiato con lui sull'evento scusandosi per l'accaduto".

"Siamo preoccupati da atteggiamenti prevenuti contro le forze dell'Ordine," conclude Marchetti "che, a prescindere dai fatti, vengono processati e linciati nelle piazze. In questo caso i due Agenti sono intervenuti per difendere un cittadino da una possibile aggressione e invece sono stati tacciati di gratuita violenza ed abusi senza alcuna possibilità di difendersi. Senza l'apporto e la solidarietà dei cittadini sarà sempre più difficile mantenere l'ordine e garantire la sicurezza nelle nostre città. Tutti, anche noi in divisa, dobbiamo fare uno sforzo per concedere gli uni agli altri maggiore fiducia".

Reazioni. E Il consigliere comunale Pd Athos De Luca annuncia che "presenterà una interrogazione per far luce sull'accaduto". E l'onorevole Donato Mosella di Alleanza per l'Italia chiede che "il ministro dell'Interno faccia chiarezza" e annuncia un'interrogazione parlamentare: "Fare luce su questo episodio - conclude il parlamentare - credo serva a tutelare i cittadini ma nello stesso tempo a tutela e garanzia del buon nome dei vigili urbani".

venerdì 23 settembre 2011

Etat palestinien : "la politique américaine reste un obstacle à une paix durable"

L'historien Rashid Khalidi, titulaire de la chaire Edward Said d'études arabes à l'université Columbia à New York, a été le conseiller de la délégation palestinienne à Madrid et Washington de 1991 à 1993. Il a enseigné à Chicago où il était un ami personnel de Barack Obama.

Votre réaction au discours du président Obama à l'ONU ?

Il a été déprimant d'entendre le président chanter les libertés nouvelles des peuples du Soudan du Sud, de Côte-d'Ivoire, de Tunisie, d'Egypte et de Libye, tout en disant aux Palestiniens que leur liberté dépend de leur habilité à faire des contorsions pour les occupants israéliens et leur amis Américains.

Tout aussi déprimant : la litanie des souffrances subies par les Israéliens et aucune mention des difficultés des Palestiniens dans un conflit dont la dernière explosion de violences en 2008-2009 a fait plus de 1 300 tués côté palestinien et 13 Israéliens. Le discours a été tristement typique, et en même temps, une nouvelle illustration des raisons pour lesquelles la politique américaine a été et reste un obstacle majeur à une paix durable et juste au Proche-Orient.

Les pressions sur Mahmoud Abbas sont intenses. Peut-il accepter une solution de repli ?

Les pressions ont été fortes de la part des Américains, des Israéliens, des Européens, mais on oublie qu'il est soumis à des pressions encore plus fortes de l'intérieur. La ligne stratégique des dirigeants de l'OLP – même avant Madrid ou Oslo –, c'était de négocier sous l'égide des Américains. On a maintenant vingt ans de faillite de cette stratégie. Les résultats sont clairs pour tout le monde, sauf aux Etats-Unis !

On a maintenant 600 000 colons là où on en avait 200 000 en 1991. Les Palestiniens ne peuvent pas aller de Gaza à Jérusalem. En 1991, on louait une voiture à Ramallah, on allait à Gaza, on passait par Israël, on allait à Nazareth... Je l'ai fait avec des plaques territoires occupés en Israël. Aujourd'hui, c'est impensable. On est dans une situation d'occupation renforcée et on parle de paix ? Les négociateurs ont échoué. Leurs rivaux – le Hamas – aussi ont échoué. Le besoin de faire quelque chose peut être plus fort que les pressions extérieures.

M. Abbas a réussi à s'échapper de la prison où les Américains voulaient l'enfermer. D'abord, en proposant qu'on renvoie la question de la Palestine dans son contexte international et en suggérant que le contrôle exclusif des Etats-Unis peut nuire et être quelque chose de négatif. Ensuite, en fondant les efforts sur les résolutions de l'ONU, et non pas sur un "cadre" (framework) comme depuis Madrid et Oslo.

Est-ce que les Etats-Unis peuvent accepter de ne plus être les seuls garants du processus de paix ?

Non, ils ne vont pas accepter de céder leur hégémonie sur ce processus stérile. Mais le courant de l'histoire est contre eux, parce tout le monde (sauf la classe politique américaine) reconnaît que leur politique a échoué, et qu'ils ne peuvent pas aboutir à une paix juste. C'est un processus qui est en bout de course. Le processus américain est fini.

M. Abbas est venu au forum multilatéral. Il est sorti du seul contrôle américain. Il est entré dans la logique Nations unies, où il y a d'autres bases et d'autres principes de négociation. Nicolas Sarkozy, lui aussi, a estimé que le monopole américain sur ce processus doit finir, et qu'un forum multilatéral est nécessaire pour la résolution du conflit.

Craignez-vous des mesures de rétorsion ?

Il va y avoir des pressions énormes pour renvoyer les Palestiniens "dans leur réserve". Le congrès peut couper l'aide aux Palestiniens. Mais pour ce qui est de la fermeture du bureau de l'OLP à Washington, c'est du ressort du département d'Etat donc de l'exécutif. Quant à la possibilité de violences, c'est faux. Les Palestiniens ne sont ni stupides ni naïfs.

Ils savent que rien ne va changer, même si on passe les meilleures résolutions qui soient au Conseil de sécurité. Il y a beaucoup d'intox sur la flambée de violences. Chez les partisans d'Israël aux Etats-Unis, une partie de cette hystérie est sincère. Ils voient à juste titre qu'Israël est plus isolé que jamais dans le passé. Mais ce n'est quand même pas la fin du monde si les Nations unies passent une résolution. A l'Assemblée générale, 130 pays reconnaissent déjà la Palestine. Ça ne va pas changer grand chose.


Propos recueillis par Corine Lesnes (Le Monde)

Pescara, organizza protesta su Fb Denunciato per manifestazione non autorizzata

 reminder elettorale:
- rifondazione ha manifestato per bloccare il tour della padania
- ora un suo consigliere manifesta contro fede
Fatti, non parole.


Il consigliere regionale di Rifondazione Maurizio Acerbo aveva fondato il gruppo "Non vogliamo Fede" contro la presenza del giornalista nella giuria di Miss Gran Prix. In 200 si sono ritrovati in piazza, ieri la convocazione in questura.
Denunciato per aver protestato contro Emilio Fede. Denunciato per aver inviato duecento "amici" di Facebook a ritrovarsi in piazza davanti all'ingresso della finale nazionale di Miss Gran Prix e Mister Italia dove proprio il direttore del Tg4 doveva essere lì come presidente della giuria.

Alla fine c'erano stati fischi, l'accensione di due bengala e un solo cartello: "vergogna".

E per dare forza a questa protesta, il consigliere regionale di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo sul social network aveva fondato due giorni prima il gruppo: "Non vogliamo Emilio Fede a Pescara", raccogliendo un migliaio di adesioni. Un appello lanciato ai "cittadini onesti per protestare contro l'invito a Fede indagato per favoreggiamento della prostituzione e per protestare contro il Comune che ha finanziato "l'iniziativa culturale" con 12 mila euro". Un evento, per altro, quelle di Miss Gran Prix, che da 10 anni si organizza sempre in Abruzzo, e finanziato anche dalla Regione e dalle province di Teramo e Pescara. Fede aveva risposto in diretta su Rete4 annunciando anche la sua assenza. "Acerbo indignato, stizzito, vorrebbe portare in piazza migliaia di persone contro di me  -  aveva detto Fede al tg4 poche ore prima della manifestazione - Modesto consiglio: la visita psichiatrica. Intanto, per le sue parole offensive una querela-denuncia".

"C'è un limite a tutto" aveva invece replicato Acerbo "perché la finale del concorso di
miss doveva essere presieduta da un indagato per favoreggiamento della prostituzione. Sono indignato e credo che con me lo saranno i cittadini onesti. Non è accettabile che mentre si tagliano i fondi per la scuola, la sanità e l'assistenza ai disabili si promuovono manifestazioni di questo genere. Fede viene a fare le selezioni per il bunga-bunga a spese dei cittadini? Quale sarà la prossima iniziativa dei nostri amministratori: mandare Lele Mora nelle scuole? Non si può assistere a questo schifo". Secca la replica dell'assessore al Comune di Pescara Barbara Caz zaniga: "ogni protesta è legittima, ma questa è pretestuosa in quanto da un decennio la finale in questione si svolge in Abruzzo, richiama l'attenzione nazionale ed è finanziata da amministrazioni pubbliche tanto di centrodestra quanto di centrosinistra, che al di là del colore politico riconosco che l'evento accende i riflettori sulla località che ospita l'iniziativa".

Ma la protesta era contro la presenza di Fede e non certo contro le miss. L'evento alla fine si era svolto lo stesso regolarmente, seppure con la defezione del conduttore Rai Milo Infante, che all'ultimo aveva deciso di non salire sul palco. Ieri, la questura di Pescara ha convocato Acerbo per la denuncia: "manifestazione non autorizzata", il reato ipotizzato

di GIUSEPPE CAPORALE (Repubblica)

giovedì 22 settembre 2011

Ustica, i giudici: “Fu un missile”. Giovanardi: “Sentenza da romanzo”

Le motivazioni della sentenza che ha riconosciuto il risarcimento alle famiglie delle vittime esclude l'ipotesi che Giovanardi ha sempre tentato di accreditare: quella di una bomba a bordo del Dc9 dell'Itavia. Per la prima volta i giudici parlano di una guerra nei cieli italianI.

Dopo la sentenza del tribunale civile di Palermo che la scorsa settimana ha riconosciuto un risarcimento per i familiari delle vittime della strage di Ustica ora arriva la motivazione, storica: per la per la prima volta i giudici parlano di una guerra aerea, depistaggi e l’aereo civile che venne abbattuto da un missile.
Una motivazione che affossa ancora una volta la tesi della bomba a bordo, molto cara a Carlo Giovanardi ma, che non ha mai trovato riscontro nelle carte processuali: “Tutti gli elementi considerati consentono di ritenere provato che l’incidente occorso al Dc9 si sia verificato a causa di un intercettamento realizzato da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure di una quasi collisione verificatasi tra l’aereo nascosto ed il Dc9”.
Questa dunque la conclusione del Tribunale di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti al risarcimento dei familiari delle vittime di Ustica. Le motivazioni della sentenza, rese pubbliche oggi dagli avvocati Alfredo Galasso e Daniele Osnato, escludono quindi che ci fosse una bomba a bordo del Dc9 Itavia.
I ministeri non prevennero il disastro e poi impedirono l’accertamento dei fatti. La sentenza storica è stata pronunciata dal giudice siciliano Paola Protopisani e, dopo la sentenza-ordinanza di Rosario Priore del 31 agosto 1999, costituisce uno dei riconoscimenti più rilevanti alle istanze di chi, nel corso dei 31 anni trascorsi dal disastro, ha sempre sostenuto che ci furono apparati dello Stato che impedirono l’accertamento dei fatti dopo non aver fatto nulla per prevenirlo.
Per arrivare al pronunciamento di oggi, nel 2007 il team legale – composto dagli avvocati Daniele Osnato, Alfredo Galasso e Vanessa Fallica che rappresentano 81 parenti delle vittime per una cinquantina di famiglie – aveva riversato al tribunale civile di Palermo un migliaio di documenti, tra cui i risultati del lavoro del giudice Priore e materiale proveniente dai processi di primo e secondo grado celebrati davanti alla corte d’Assise di Roma contro l’aeronautica militare, accusata di aver depistato le indagini (i dibattimenti iniziarono rispettivamente il 28 settembre 2000 e il 3 novembre 2005).
Sono stati due i punti su cui l’istanza in sede civile dei familiari ha battuto. Da un lato, la sicurezza del volo Itavia 870 – decollato da Bologna con un paio d’ore di ritardo e che avrebbe dovuto atterrare all’aeroporto di Punta Raisi – non venne garantita. E non venne garantita in particolare in una tratta, che va sotto il nome di “Punto Condor”. I legali dei parenti facevano infatti rilevare che quella era una zona ad alto rischio, dove si concentravano attività militari ufficiali e ufficiose.
Inoltre veniva rimarcato un alto elemento, successivo alla strage. I familiari delle vittime, infatti, negli anni successivi al disastro vennero sottoposti a quella che è stata chiamata nei documenti giudiziari la “tortura della goccia cinese”, uno stillicidio – specificano gli avvocati – di alterazioni di documenti, omissioni, segreti di Stato tali o presunti, menzogne. In altre parole “depistaggi”, quelli che non si riuscì ad accertare in sede penale. Proprio questa “tortura” è alla base del pezzo di risarcimento che va ad aggiungersi ai 100 milioni e che viene chiamato “oneri accessori”. Si tratta in pratica del riconoscimento di un danno continuato e non estinguibile che va oltre il lutto provocato dalla perdita di un parente della strage aerea.
Un ”giudizio positivo” sulla sentenza del Tribunale civile di Palermo è stato espresso da Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione familiari vittime strage di Ustica: “Un pronunciamento – afferma – che prende atto delle conclusioni della sentenza- ordinanza del giudice Priore del ’99 e ribadisce lo scenario di guerra attorno al Dc9. Proprio a Bologna la stessa Avvocatura dello Stato aveva riconosciuto legittimo sostenere questa tesi”. Daria Bonfietti riconosce quindi “una continuità tra il prendere atto di quello che è accaduto e riconoscere la responsabilità dei ministeri del Trasporti e della Difesa per non avere in qualche modo difeso la sicurezza dei cieli, e quindi la vita dei cittadini italiani”.
Bonfietti chiede “al Governo, al Parlamento e alle istituzioni di prendere atto di questa gravissima verità. L’ unico passo oggi non rinviabile è una forte azione diplomatica sugli stati – Usa, Francia, Inghilterra, Belgio, Germania e Libia – che non hanno assolutamente risposto alle rogatorie che ormai da due anni i magistrati hanno loro inoltrato”.
”Quelle della dottoressa Protopisani sono motivazioni abnormi, in totale contrasto con la sentenza passata in giudicato della Suprema Corte di Cassazione che ha accertato che l’ipotesi di battaglia aerea è ascrivibile alla categoria della fantapolitica o del romanzo”. E’ quanto afferma, puntuale, il sottosegretario Carlo Giovanardi, commentando la sentenza dei giudici civili di Palermo.
“La sentenza ripropone le ipotesi elaborate dal giudice istruttore dell’epoca, dottor Priore, contraddette nel processo dagli stessi pubblici ministeri, dai risultati delle commissioni peritali, dalla Commissione Stragi e dalla documentazione fornita dalla Nato da cui risulta con certezza che nessun aereo era in volo quella sera in vicinanza del DC 9 dell’Itavia. L’appello sicuramente cancellerà questa incredibile sentenza ma, nel frattempo, ho dato incarico all’Avvocatura di Stato di verificare se nelle affermazioni dell’avvocato Osnato siano ravvisabili profili diffamatori nei riguardi del Governo italiano e di chi rispetta la verità giudiziaria emersa nella sentenza scritta dalla Cassazione”, conclude Giovanardi.

Da il fatto quotidiano Emilia Romagna  clicca per accedere al link

mercoledì 21 settembre 2011

Etat membre, observateur permanent : quel statut pour la Palestine ?

A quelques jours de l'intervention de Mahmoud Abbas à l'ONU, les diplomates s'activent pour éviter que l'initiative palestinienne ne vire, selon leurs propres dires, à la "catastrophe ferroviaire". Le président français Nicolas Sarkozy a proposé, mercredi, d'offrir aux Palestiniens un rang "intermédiaire […] d'Etat observateur" à l'ONU. Que recouvre exactement ce statut ? Qu'est-ce qui le différencie de celui d'Etat membre auquel aspirent les Palestiniens ?

  • Les Etats membres
    Juridiquement, l'ONU n'est pas habilitée à reconnaître un Etat ou un gouvernement. Elle se prononce uniquement sur leur admission ou non dans ses rangs. D'après les textes, "tous les Etats pacifiques qui acceptent les obligations de la Charte et, au jugement de l'organisation, sont capables de les remplir" peuvent prétendre au titre de membres de l'ONU. Ils sont 193 aujourd'hui à siéger, parmi lesquels on peut distinguer les pays signataires de la Charte des Nations unies à San Francisco dès 1945 (51 pays) et ceux qui ont été admis postérieurement.
    Pour bénéficier d'un tel statut, les candidats à l'adhésion doivent présenter au secrétaire général des Nations unies une demande accompagnée d'une lettre attestant officiellement qu'ils acceptent les obligations de la Charte. Le tout est transmis au Conseil de sécurité, qui examine la requête et décide ou non d'émettre une recommandation en faveur de l'admission. Pour être valable, le texte doit avoir été adopté par 9 des 15 membres du Conseil. Il est ensuite soumis à l'Assemblée générale, où un vote favorable à la majorité des deux tiers est nécessaire pour que l'adhésion soit effective.
    Comme le rappelle la correspondante du Monde à Washington, Corine Lesnes, sur son blog, la procédure prend un certain temps. Dans certains cas, elle se grippe complètement.
    Si l'un des membres permanents du Conseil de sécurité (Etats-Unis, Russie, Chine, Royaume-Uni, France) oppose son veto à la recommandation lors du premier examen, la demande est définitivement bloquée. "C'est ce qui se passait dans les années 1950 quand, en raison de la guerre froide, les Etats-Unis s'opposaient systématiquement aux candidatures parrainées par l'Union soviétique, et Moscou aux demandes soutenues par Washington", rappelle Serge Sur, directeur du centre Thucydide et professeur à l'université Panthéon-Assas.
    L'obstacle que représente aujourd'hui un éventuel veto américain au Conseil de sécurité contre l'initiative palestinienne pèse lourd dans les négociations menées ces derniers jours à l'ONU. Les diplomates, qui s'efforcent en coulisse d'explorer d'autres voies que l'adhésion, mettent en avant les différentes réalités que peut recouvrir le statut d'observateur permanent.
    • Les observateurs permanents
    Depuis 1946, l'ONU peut en effet accorder à des Etats ou à des organisations un rang intermédiaire. Cette position dite d'observateur permanent leur confère le droit d'assister à la plupart des réunions de l'Assemblée générale, mais elle ne les autorise pas à voter. Des pays comme l'Autriche, la Finlande, l'Italie ou le Japon en ont longtemps bénéficié avant de devenir membre à part entière de l'organisation. Aujourd'hui, le seul Etat non membre à jouir d'un tel statut est le Saint-Siège (Vatican).
    Depuis que l'Assemblée générale a accordé en 1974 à l'OLP le rang d'observateur permanent, la Palestine dispose elle aussi d'une représentation aux Nations unies. Elle a le droit de participer aux sessions et aux travaux de l'Assemblée générale. Mais, à la différence du Vatican, elle n'est pas considérée comme un Etat mais comme une entité.
    C'est sur cette nuance que compte jouer la diplomatie française pour désamorcer la crise diplomatique qui se profile à l'ONU. Contrairement à l'admission, qui nécessite la validation du Conseil de sécurité, le passage du rang d'"observateur" à celui d'"Etat observateur non membre" peut être obtenu à la majorité simple lors d'un vote à l'Assemblée générale. Paris espère ainsi convaincre les Palestiniens de renoncer à leur démarche devant le Conseil de sécurité et accepter une solution de compromis.
    Pour en savoir plus :
    Le Monde (21/09/2011)

    Progressives Vow to Challenge Obama in Democratic Primaries

    Finalmente la sinistra americana si sveglia e cerca di andare oltre obama. Gia' sicura la reazione: come nel 2001, il Nader di turno fara' vincere il Bush di turno. Ma e' davvero cosi'? Bisogna tenersi Obama con tutta la sua incapacita' e tutti i suoi disastri? Bisogna sempre votare per il meno peggio o provare finalmente a dare una risposta ai veri problemi che affliggono gli USA e tutto il mondo occidentale? (articolo segnalato da Nicola)


    Progressives Vow to Challenge Obama in Democratic Primaries
    Progressive leaders led by Ralph Nader and Cornel West unveiled a proposal today to challenge President Obama in the Democratic Party’s presidential primaries in 2012.

    The proposal, which has been endorsed by over 45 distinguished leaders, seeks to have a slate of six candidates run against President Obama, each representing a field in which Obama has never clearly staked a progressive claim or where he has drifted toward the corporatist right.
    “Without debates by challengers inside the Democratic Party’s presidential primaries, the liberal/majoritarian agenda will be muted and ignored,” said Ralph Nader.
    “The one-man Democratic primaries will be dull, repetitive, and draining of both voter enthusiasm and real bright lines between the two parties that excite voters,” Nader said.

    A letter (full text below) is being sent to a list of distinguished elected officials, civic leaders, prominent members of academia and the NGO community who represent the fields of labor, poverty, military and foreign policy, health insurance and care, the environment, financial regulation, consumer protection, and civil, political and human rights/empowerment.

    The list of potential candidates also includes progressive democrats who have held national and state office and have fought for progressive reforms.

    “We need to put strong democratic pressure on President Obama in the name of poor and working people” said Cornel West, author and Professor at Princeton University. “His administration has tilted too much toward Wall Street, we need policies that empower Main Street.”

    The letter pronounces that without primary challengers, President Obama will never have to seriously articulate and defend his beliefs to his own party. Given the dangers our nation faces, that option is unacceptable.

    “It’s time for the White House to get into the trench with organized labor and lend a hand. We know what we need, and we don’t need another campaign speech,” said Chris Townsend Political Action Director, United Electrical, Radio and Machine Workers of America. “The absence of discussion or debate about the failed strategies of this administration only emboldens the corporate onslaught.”

    The letter points to numerous decisions that have drawn criticism from Obama’s own Democratic Party including his decision to bail out Wall Street’s most profitable firms while failing to push for effective prosecution of the criminal behavior that triggered the recession, escalating the wars in Afghanistan and Pakistan while simultaneously engaging in a unilateral war in Libya, his decision to extend the Bush era tax cuts, and his acquiescence to Republican extortion during the recent debt ceiling negotiations.

    “Robust debate on the crucial issues facing our nation, including global environmental devastation, should characterize all races for national public office and the Democratic presidential primaries are no exception,” said Brent Blackwelder, President Emeritus of Friends of the Earth. “The public needs to hear whether a second term Obama will be like the first term Obama, or perhaps more like the 2008 presidential candidate Obama or something else altogether.”

    The list of prominent leaders receiving the letter is being kept private as a courtesy.

    Here’s the full letter and a partial list of endorsees:

    Dear Colleague,

    We write to you in light of recent deteriorating events in Washington, D.C. Misguided negotiations by the Obama Administration over increasing the debt ceiling willingly put our nation’s vital social services on the chopping block while Bush-era tax cuts remain untouched. Clearly the situation has reached crisis proportions. In response, an innovative plan has been developed to reintroduce a progressive agenda back into the political discussion during the 2012 election season.

    Consider for a moment two very different scenarios for the 2012 Democratic presidential primaries.

    The First scenario, President Obama advances without contest to a unanimous nomination. There is no recognizable Democratic challenger, no meaningful debate on key progressive issues or past broken promises, just a seamless, self-contained operation on its way to raising one billion dollars in campaign funds.

    This scenario is what most observers expect. Mr. Obama will face neither opposition nor debate. He will have no need to clarify or defend his own polices or address the promises, kept and unkept, of his 2008 campaign. The president will not have to explain to his supporters why he directly escalated the war in Afghanistan and broadened America’s covert war in Pakistan, why he chose to engage in a military intervention in Libya, or why he has maintained the Bush Administration’s national security apparatus that allows for the suspension and abuse of constitutionally protected civil liberties--dismissing Congress all the way.

    In an uncontested Democratic primary, President Obama will never have to justify his decision to bail out Wall Street’s most profitable firms while failing to push for effective prosecution of the criminal behavior that triggered the recession, or his failure to push for real financial reform. He will not have to defend his decision to extend the Bush era tax cuts nor justify his acquiescence to Republican extortion during the debt ceiling negotiations. He will not have to answer questions on how his Administration completely failed to protect homeowner’s losing their homes to predatory banks, or even mention the word “poverty,” as he failed to do in his most recent State of the Union Address, even as more and more Americas sink into financial despair.

    He will never be challenged to fulfill his pledge to actively pursue a Labor-supported card check, or his promise to increase the federal minimum wage or why he took single payer off the table after he said he believes in it. The American labor movement, facing an unprecedented onslaught by the Right will not have the opportunity to voice its concerns and rally around a supportive candidate.

    The president will not be pressed to answer how he spent four years in office without addressing the ongoing destabilization of our climate or advocating a coherent and ecologically sound energy policy including defending his position on nuclear power and so called clean coal. Nor will he discuss regulatory agency deficiencies in enforcing corporate law and order in an era marked by a corporate crime wave having devastating economic consequences on workers and taxpayers and their savings and pensions. There will be no opportunity for the Hispanic and other relevant communities to speak out on immigration reform even as the Republicans continue to use it as a weapon of political demagoguery.

    Add your own concerns, disappointments, and frustrated hopes to this list of what will surely be left off the table during an express-lane primary. The valid disagreements within the Democratic Party, let alone the goals of progressives, will be completely overlooked. The media will gleefully cover the media circus that is sure to be the Republican primaries, magnifying every minor gaffe and carefully cataloging every iteration and argument of the radical right. The cameras will cover the Democratic side only for orchestrated events, the whiff of scandal, and to offer commentary on how the campaign is positioning itself for the general election.

    The summation of this process will be a tediously scripted National Convention, deprived of robust exchange and well-wrought policy. And here the danger is clear: not only will progressive principles past and present be betrayed but large sections of voters will feel bored with and alienated from the democratic candidate. This would not serve the president’s campaign, our goals, or the nation’s needs.

    Thankfully, there is another option. This second scenario would allow for robust and exciting discussion and debate during the primary season while posing little risk to the president other than to encourage him take more progressive stands. It would also accomplish the critical task of energizing the Progressive base to turn out on Election Day.

    Imagine: A slate of six candidates announces its decision to run in the Democratic primaries. Each of the candidates is recognizable, articulate, and a person of acknowledged achievement. These contenders would each represent a field in which Obama has never clearly staked a progressive claim or where he has drifted toward the corporatist right. These fields would include: labor, poverty, military and foreign policy, health insurance and care, the environment, financial regulation, civil and political rights/empowerment, and consumer protection.

    Without primary challengers, President Obama will never have to seriously articulate and defend his beliefs to his own party. Given the dangers our nation faces, that option is unacceptable. The slate is the best method for challenging the president for a number of reasons:


    The slate can indicate that its intention is not to defeat the president (a credible assertion given their number of voting columns) but to rigorously debate his policy stands.

    The slate will collectively give voice to the fundamental principles and agendas that represent the soul of the Democratic Party, which has increasingly been deeply tarnished by corporate influence.

    The slate will force Mr. Obama to pay attention to many more issues affecting many more Americans. He will be compelled to develop powerful, organic, and fresh language as opposed to stale poll-driven “themes.”

    The slate will exercise a pull on Obama toward his liberal/progressive base (in the face of the countervailing pressure from “centrists” and corporatists) and leave that base with a feeling of positive empowerment.

    The slate will excite the Democratic Party faithful and essential small-scale donors, who (despite the assertions of cable punditry) are essentially liberal and progressive.

    A slate that is serious, experienced, and well-versed in policy will display a sobering contrast with the alarmingly weak, hysterical, and untested field taking shape on the right.

    The slate will command more media attention for the Democratic primaries and the positive progressive discussions within the party as opposed to what will certainly be an increasingly extremist display on the right.

    The slate makes it more difficult for party professionals to induce challengers to drop out of the race and more difficult for Mr. Obama to refuse or sidestep debates in early primaries.
    The slate, if announced, will receive free legal advice and adequate contributions for all prudent expenses in moving about the country. The paperwork is far simpler than what confronts ballot-access-blocked third party and independent candidates. For the slate will be composed of registered Democrats campaigning inside the Party Primaries.

    This opportunity to revive and restore the progressive infrastructure of the Democratic Party must not be missed. A slate of Democratic candidates challenging the president’s substance and record is an historic opportunity. Certainly, President Obama will not be pleased to face a list of primary challengers, but the comfort of the incumbent is far less important than the vitality and strength of his party’s Progressive ideas and ideals. President Obama should emerge from the primary a stronger candidate as a result.

    This letter is sent to several dozen accomplished persons known to identify with the Democratic Party voting line for a variety of reasons. We ask that you join us in becoming an official endorsee of the slate proposal. All endorsements are made as individuals and organizational or institutional affiliations are for identification purposes only. Your endorsement will be a vital signal of support and will help in compiling the strongest slate of candidates possible when we send out the letter to the candidate list, yet to be finalized.

    Second, can you suggest accomplished people to contact who may be interested in joining the slate as a candidate in one of the following fields: labor, poverty, military and foreign policy,health insurance and care, the environment, financial regulation, civil and political rights/empowerment, and consumer protection. This can be yourself if you feel it would be appropriate.

    Endorsements will be accepted on a rolling basis. All submissions of endorsement or additional questions and comments for the can be directed to Colin O’Neil at colinoneil@gmail.com or 703-599-3474. We appreciate your speedy reply.

    Thank you.

    James Abourezk
    Former U.S. Senator, South Dakota

    Gar Alperovitz, Professor University of Maryland, Co-Founder Democracy Collaborative

    Norman Birnbaum
    Professor Emeritus, Georgetown University Law Center

    Dr. Brent Blackwelder
    President Emeritus of Friends of the Earth

    Ellen H. Brown
    Lawyer and Author of Web of Debt

    Edgar Stuart Cahn
    Professor of Law, University of the District of Columbia
    Co-founder Legal Services for the Poor

    Pat Choate
    1996 Reform Party Vice President Candidate

    Charles Cray
    Director of the Center for Corporate Policy

    Peter Coyote
    Actor, Author and Director

    Ronnie Cummins, Executive Director, Organic Consumers Association

    Charles Derber, Professor, Boston College

    Ronnie Dugger
    Founder, Alliance for Democracy

    John Fullerton
    President, Capital Institute

    Rebecca and James Goodman, Northwood Farm

    Randy Hayes
    Director, Foundation Earth
    Rainforest Action Network Founder

    Chris Hedges
    Pulitzer Prize Winning Journalist of the New York Times and Author

    Hazel Henderson,
    Author of Ethical Markets: Growing the Green Economy
    President, Ethical Markets Media, LLC.

    Jean Houston
    Psychologist, Anthropologist and Author of The Possible Human and The
    Possible Society

    Nicholas Johnson
    Former Commissioner, Federal Communications Commission
    Former Administrator, Federal Maritime Commission

    Alan F. Kay
    Author of Spot the Spin and Locating Consensus for Democracy

    Harry Kelber
    The Labor Educator

    Andrew Kimbrell
    Executive Director, Center for Food Safety &
    International Center for Technology Assessment (ICTA)

    Jonathan Kozol
    Educator, Author of Savage Inequalities

    Lewis Lapham
    Former Editor, Harper’s Magazine

    Leland Lehrman, Partner, Fund Balance

    Rabbi Michael Lerner
    Editor, Tikkun Magazine
    Chair, Network of Spiritual Progressives

    Dr. Richard Lippin, MD
    Physician Forecaster, Board Certified in Preventive Medicine and
    Advocate for both Individual and Institutional Prevention

    Robert D. Manning
    Founder and CEO, Responsible Debt Relief Institute
    Author of Credit Card Nation

    Dr. Samuel Metz, MD
    Mad As Hell Doctors, founding member
    Physicians for a National Health Plan, member of Portland chapter

    Carol Miller, Community Activist, New Mexico

    E. Ethelbert Miller, Board Chair Institute for Policy Studies

    Ralph Nader
    Citizen Advocate

    Michael Parenti
    Author

    John Passacantando
    Former Executive Director, Greenpeace USA

    Erich Pica
    President of Friends of the Earth

    Vijay Prashad
    Author and Professor, Trinity College

    Nomi Prins
    Author and former Managing Director at Goldman Sachs

    Marcus Raskin
    Author of The Common Good and former White House Advisor

    Andy Shallal
    “Democracy’s Restauranteur” and Owner of Bus Boys& Poets

    Michelle Shocked
    Musician

    Chris Townsend
    Political Action Director, United Electrical, Radio and Machine
    Workers of America (UE)

    Gore Vidal
    Author and Political Activist

    Rabbi Arthur Waskow
    Chair, The Shalom Center

    Harvey Wasserman
    Author of Solartopia! Our Green-Powered Earth

    Cornel West
    Professor and Author of Race Matters

    Quentin D. Young MD
    National Coordinator, Physicians for a National Health Program

    Published on Monday, September 19, 2011 by Single Payer Action

    Il peggio puo' arrivare

    «L'economia mondiale sta diventando sempre più ingiusta e insostenibile: uccide più delle bombe». «Quest'ingiustizia affonda le radici in un neoliberismo che non sa rispondere ai veri bisogni delle persone» e cresce in un'economia che privilegia «le rendite finanziarie e i guadagni speculativi anziché la produzione, la crescita quantitativa anzichè la qualità, lo sfruttamento della natura e dell'ambiente anziché la loro protezione ».
    e in Italia ?
     
    Grande e melmosa è la confusione sotto il cielo. La crisi del finanzcapitalismo investe tutto il mondo occidentale, Stati uniti in testa. In Europa è peggio. C'è un debito da fallimento e c'è un arresto della crescita. La situazione è massimamente contraddittoria: per ridurre il debito bisogna risparmiare, ma risparmiare deprime la crescita. Come uscirne? La risposta è difficile.
    Anche l'Italia è in questa situazione. Declassata dall'agenzia di rating Standard&Poor's per il debito e da un blocco della produttività e della produzione da un po' di anni. Crescita della disoccupazione e calo della domanda. In contemporanea c'è una brutta crisi politica: anche il berlusconismo fa acqua, non riesce a governare, che è la cosa più seria, ed è travolto da scandali pesanti. C'è il fatto che oggi l'attuale Presidente del Consiglio è l'uomo più ricattato d'Italia, e questa condizione non aiuta alcun governo.
    In Italia siamo così a un intreccio di crisi politica e crisi economica e, per esperienza e memoria, tutti sappiamo che quando la crisi economica agisce sulla politica la deriva di destra è inevitabile. Nella situazione data una destra oltre la destra berlusconiana non è affatto da escludere. Come dice il vecchio detto, «al peggio non c'è fine».
    In una situazione siffatta grande è la responsabilità delle varie sinistre italiane. E qui siamo a un punto assai critico. Se le sinistre tutte, quelle dei partiti e quelle di opinione, per dire dei giornali, faranno loro principale argomento di lotta le escort e i bunga bunga non credo che usciremo da questa situazione e viene da chiedersi: anche fatto fuori Berlusconi (il cui partito è un'accozzaglia in fermento) in che condizioni si troverà la politica italiana? È un interrogativo, a mio parere, da non sottovalutare.
    Quindi la domanda torna al che fare delle sinistre, che dovrebbero essere coscienti del fatto che l'opposizione di Confindustria a Berlusconi non è di sinistra, anche se viene enfatizzata sui giornali di sinistra. In una situazione così grave e pericolosa (la minaccia di slittamento a destra è fuori dell'uscio) la sinistra dovrebbe mettere in secondo piano gli scandali e presentare e sostenere un programma unitario di misure economiche contro la crisi. Certo c'è una crisi economica che rende tutto più difficile, ma la sinistra dovrebbe avere la forza di elaborare un programma di riforme economiche e sociali per uscire dalla mortale deriva dell'attuale crisi economica e politica. In altri tempi la sinistra presentava suoi progetti, ricordo per tutti il Piano del lavoro di Di Vittorio.
    Nell'attuale pericolosa crisi economica e politica le sinistre tutte dovrebbero convergere in una proposta programmatica forte e realistica. Altrimenti andremo inevitabilmente al peggio, continuando a prendercela con gli scandali berlusconiani, ignorando che ci può essere ancora un peggio dopo Berlusconi.

    di Valentino Parlato (il Manifesto)

    martedì 20 settembre 2011

    Propaganda anti-Tav: coro di critiche a Fazio

    Da "Repubblica" del 20/09/2011

    Nel mirino la difesa di Mercalli in diretta tv delle due donne con la maschera antigas arrestate a Susa. La replica: ognuno faccia il suo mestiere

    di DIEGO LONGHIN

    TORINO - Un fuoco di fila da destra e sinistra contro "Che tempo che fa". È bastata una battuta del meteorologo Luca Mercalli sull'alta velocità Torino-Lione e sulle ragioni dei No-Tav per sollevare un polverone sulla trasmissione di Fabio Fazio su RaiTre. Solo un minuto, in chiusura all'intervento di domenica sera: Mercalli si è definito "indignato" per l'arresto di due attiviste del movimento, Elena Garberi e Marianna Valenti, dieci giorni fa durante gli ultimi scontri attorno al cantiere in Val di Susa. I primi ad attaccare? I deputati del Pd, Giorgio Merlo, vicepresidente della Commissione di Vigilanza Rai, e Stefano Esposito. "Anche per Fazio dovrebbe valere il principio che la propaganda aperta deve essere più contenuta, almeno quando si toccano temi delicati. Siamo contenti della permanenza in Rai di Fazio, ma ci chiediamo se la propaganda contro la Tav sia un modello di giornalismo da servizio pubblico". L'onorevole Esposito rincara la dose: "Ora Fazio dovrebbe invitare gli agenti feriti o gli operai del cantiere minacciati. Non è possibile che Mercalli faccia l'avvocato dei No-Tav con i soldi dei contribuenti.".

    Alla richiesta di Esposito si unisce Enrico Farinone (Pd), vicepresidente commissione Affari Esteri: "Da Fazio c'è stato un uso militante della tv contro la Torino-Lione. Ora spieghi anche i motivi che hanno portato alla progettazione dell'opera". E al coro di accuse si sono poi aggiunti l'onorevole Agostino Ghiglia e il senatore Enzo Ghigo

    (Pdl): "Il Pd scopre l'acqua calda. La puntata No-Tav dimostra solo la politicizzazione di alcuni conduttori che da tempo il Pdl denuncia".

    Fazio preferisce non replicare, anche se nota "che c'è sempre qualcuno che vorrebbe insegnare ad altri il mestiere". E poi annuncia che in una delle prossime puntate sarà ospite Antonio Manganelli, capo della polizia. Il meteorologo Mercalli, che ha incassato il grazie dei No-Tav durante la fiaccolata per le due arrestate di ieri sera e che in passato era stato attaccato per le sue posizioni, non riesce a comprendere il perché del polverone: "Ho detto che da cittadino sono indignato dal fatto che due donne, incensurate, siano in carcere per porto abusivo di maschere antigas. Ma poi quali maschere: sono filtri da verniciatore che si vendono nelle ferramenta. Una cosa non tollerabile in un paese civile. Sarebbe forse il caso di uscire da questo squallido teatrino delle ragioni di ordine pubblico, delle botte e dei lacrimogeni per tornare a parlare del merito". E poi contrattacca: "Non sono un nemico dello Stato come mi vogliono dipingere, tirando in ballo Battisti e il terrorismo. Di questo se ne occuperà il mio avvocato, se sarà il caso. Perché in tutto questo panegirico nemmeno una parola sull'opera, un dato che dimostri l'utilità della Torino-Lione? Mi smentiscano con i numeri e smentiscano i 135 docenti universitari che hanno firmato una petizione mandata al presidente Napolitano".

    lunedì 19 settembre 2011

    Motion pour le Conseil fédéral d'Europe Ecologie-les Verts des 17 et 18 septembre 2011 :

    Mozione firmata dal gruppo "Ecologia/ verdi" in Francia a favore del riconoscimento di uno Stato Palestinese all'ONU il prossimo 23 settembre.

    « La reconnaissance de l’Etat palestinien et son admission à l’Organisation des Nations Unies, une étape décisive pour le processus de Paix » !

    EXPOSE DES MOTIFS

    Alors que les populations d'Afrique du Nord et du Moyen-Orient se soulèvent contre des régimes autoritaires et revendiquent leur droit à la dignité, à la liberté et à la démocratie dans le contexte des Printemps arabes, l'Autorité palestinienne a décidé de demander la reconnaissance de l'Etat de Palestine dans les frontières de 1967 avec Jérusalem Est comme capitale et son admission comme membre plein et entier à l'ONU franchissant ainsi un cap politique et diplomatique important.

    La question de la reconnaissance de l'Etat palestinien n'est pas un élément nouveau. Elle a été évoquée en premier lieu par l'Union européenne à la fin de la période intérimaire prévu par les Accords d'Oslo dans la Déclaration de Berlin de 1999. La feuille de route pour la Paix adoptée par le Quartette le 30 avril 2003 proposait un règlement entre les parties devant aboutir en 2005 à la création d'un Etat palestinien indépendant, démocratique et viable vivant aux côtés d'Israël en paix et en sécurité. La Conférence internationale d'Annapolis en 2007 évoquait la création d'un Etat palestinien dans un délai de un an. Quant aux Accords d'Oslo, ils prévoyaient le règlement des questions de statut final en 1999[1].

    Aujourd'hui, plus de 120 Etats ont reconnu la Palestine comme Etat à part entière. Parmi eux, figurent huit[2] Etats Membres de l'Union européenne qui avaient réagi positivement à la déclaration d'indépendance de la Palestine du 15 novembre 1988.

    La question de la reconnaissance telle que posée aujourd'hui coïncide d'une part avec l'aboutissement d'un processus politique interne à la Palestine et d'autre part avec des échéances importantes fixées par la Communauté internationale: la fin de la période d'un an prévu par le Quartet pour les négociations de paix et l'anniversaire de la déclaration de Barack Obama prononcée devant l'Assemblée générale des Nations Unies en septembre 2010 évoquant son souhait d' accueillir en 2011 " un Etat de Palestine indépendant, vivant en paix avec Israël".

    Les résultats de ce processus politique interne, c'est-à-dire, la construction des institutions du futur Etat palestinien tel que prévu dans le plan "Palestine- fin de l'occupation, établissement d'un Etat" lancé par Salam Fayyad en aout 2009 et la signature d'un accord de réconciliation intra-palestinien représentent pour EELV des facteurs décisifs plaidant en faveur de la reconnaissance d'un Etat palestinien indépendant.

    Cette demande coïncide également avec un processus de paix au point mort en raison de la volonté du gouvernement israélien de poursuivre la colonisation de la Cisjordanie, l'annexion de Jérusalem Est et le blocus de Gaza, politiques contraires au droit international et aux nombreuses résolutions adoptées par les Nations Unies.

    A ce titre, il faut rappeler que lors de sa conférence du 13 avril dernier, le Comité de liaison Ad Hoc des donateurs a reconnu, sur la base des rapports de l'ONU, de la Banque mondiale et du FMI, que les Palestiniens avaient dépassé le seuil d'un Etat fonctionnel dans les secteurs clefs et que "les institutions palestiniennes soutenaient désormais avantageusement la comparaison avec celles des Etats qui existent". En cela, le futur Etat palestinien remplit formellement toutes les conditions dites objectives[3] requises juridiquement pour solliciter sa reconnaissance auprès de la plus haute instance internationale.

    EELV rappelle à cet égard et s'en félicite que l'Union européenne ait soutenu le plan Fayyad et contribué à la mise en place de l'architecture institutionnelle palestinienne en apportant son assistance financière et technique tout en réaffirmant son attachement à l'édification d'un Etat palestinien démocratique.

    Par ailleurs, la signature le 3 mars 2011 d'un accord de réconciliation entre les mouvements du Fatah et du Hamas met fin à une division à la fois du territoire et du peuple palestinien qui fragilisait et affaiblissait les velléités de l'Autorité palestinienne et ouvre ainsi une nouvelle voie aux Palestiniens. Outre les questions d'ordre sécuritaire qui ont toute leur importance dans ce processus de réconciliation (construire dans la durée des services de sécurité professionnels et apolitiques), cet accord prévoit notamment la formation d'un gouvernement d'unité nationale formé d'indépendants suivi par des élections à tous les niveaux organisées dans un délai raisonnable.

    EELV estime que la formation de ce gouvernement d'unité nationale ne doit en aucun cas être considérée comme un obstacle à la reconnaissance de l'Etat palestinien. Car la constitution de ce gouvernement doit avant tout être perçue comme un pas important en termes de dynamique politique visant une situation institutionnelle unitaire en Cisjordanie et à Gaza, pouvant constituer un levier décisif pour pousser Hamas à évoluer dans la bonne direction et être considérée comme un élément indispensable à la création d'un Etat palestinien viable.

    EELV demande à ce titre à l'Union européenne et en particulier au gouvernement français, de tirer toutes les leçons de l'expérience de 2006 et en particulier, de prendre toute la mesure des effets néfastes et désastreux à la fois politiques, économiques, sociaux et humanitaires, de sa décision de boycotter le gouvernement issu des urnes, puis le gouvernement d'unité nationale.

    EELV prend note par conséquent de l'accueil favorable de l'Union européenne à cet accord de réconciliation et de sa demande au gouvernement palestinien de respecter un certain nombre de principes acceptables par la partie palestinienne tels que reconnus dans les engagements de l'OLP. Mais EELV insiste fortement pour que l'Union européenne et le gouvernement français en particulier, s'engagent activement pour soutenir ce processus de réconciliation visant à sortir les Palestiniens d'une impasse politique qui n'a que trop duré.

    EELV dénonce avec la plus grande fermeté les propos du Premier Ministre Netanyahu en réaction à l'annonce de l'accord de réconciliation sommant le Président Abbas de choisir entre la paix et la réconciliation, entre le dialogue avec Hamas et le dialogue avec Israël.

    Dans le même esprit, EELV déplore les propos du Premier Ministre Netanyahou qui ferme la porte à toute négociation en prononçant ses quatre "non" devant le Congrès américain le 24 mai dernier: non à l'arrêt de la colonisation, non aux frontières de 1967 comme base pour règlement des questions de territoire, non au partage de Jérusalem et non au droit au retour des réfugiés palestiniens.


    MOTION:

    EELV considère que
    ·     en dépit de tous les obstacles politiques internes et externes, et en particulier, la poursuite de l'occupation et de la colonisation israélienne, l'intervention militaire "plomb durci" dans la bande de Gaza en décembre 2009, les incursions israéliennes ainsi que les arrestations et exécutions sommaires, la partie palestinienne prouve qu'elle est un partenaire crédible pour la paix, que ce soit à travers le refus du recours à des moyens non pacifiques de résistance, la création d'institutions étatiques solides ou sa volonté de reprendre les négociations sur la base des termes de références internationalement reconnus.

    EELV estime par ailleurs que

    ·     la reconnaissance formelle de l'Etat palestinien n'est pas contraire au processus de paix, processus de négociations nécessaire pour rechercher des solutions aux questions de statut final, mais souligne à ce stade l'absence d'avancées notables dans les négociations vers une résolution du conflit.

    ·     Dans cet esprit, EELV insiste sur le fait que la reconnaissance de la souveraineté et de l'indépendance de la Palestine est une étape décisive susceptible de préserver la solution de deux Etats, d'ancrer durablement l'Etat palestinien dans le camp de la paix et de renforcer, à terme la stabilité de la région. Les Palestiniens attendent justice et réclame le droit à la reconnaissance de l'Etat de Palestine dans les frontières de 1967 avec Jérusalem Est comme capitale à côté de l'Etat d'Israël. Ainsi, il y aura au sein des Nations Unies deux Etats à part entière et à égalité: Israël et la Palestine, 194ème Etat Membre des Nations Unies.


    EELV rappelle au gouvernement français

    ·     son engagement réitéré à l'occasion de la dernière conférence du Comité de liaison ad hoc de soutenir le processus de construction d'institutions palestiniennes solides la nécessité, en terme de crédibilité dans la région, notamment dans le contexte des Printemps arabes, d'agir en cohérence avec les principes fondateurs de la république française, les valeurs fondamentales de l'Union européenne et l'application du droit international en soutenant les aspirations légitimes du peuple palestinien

    ·     lui demande instamment de mettre tout en œuvre pour aboutir à une position commune des Etats Membres de l'Union européenne pour reconnaître collectivement l'Etat palestinien sur les frontières de 1967 et de soutenir son admission  comme membre à part entière au sein de l'ONU, et d'y apporter l'indispensable soutien politique et financier qu'il implique

    EELV souligne, à cet égard, que

    ·     la reconnaissance de l'Etat palestinien et son admission au sein des Nations Unies ouvre une nouvelle perspective en termes d'utilisation d'instruments juridiques et politiques quant à l'application du droit international. Elle pourra en particulier contribuer à une plus grande cohérence de la mise en œuvre, par les autres Etats, de la  Charte des Nations Unies et à l'obligation de réagir en cas de menaces à la paix.

    Par ailleurs, EELV demande instamment au gouvernement français

    ·     de prendre toutes les mesures nécessaires vis-à-vis du gouvernement israélien pour mettre fin immédiatement et durablement au siège de Gaza, blocus inacceptable d'un point de vue humanitaire et contraire au droit humanitaire international, et en particulier à la 4ème Convention de Genève.

    EELV réaffirme

    ·     son attachement au respect du droit et de la justice internationale, dans toutes circonstances, ainsi qu'à la responsabilité et aux obligations internationales dans le conflit israélo-palestinien.

    ·     Dans ce sens, EELV estime que la Communauté internationale doit mettre fin sans délai à sa politique de double standard mené jusqu'à présent vis-à-vis d'Israël

    ·     et demande au gouvernement français de veiller à l'application du droit international par Israël et de prendre toutes les mesures nécessaires au sein de l'Union européenne pour faire respecter les engagements internationaux d'Israël en termes de respect des droits de l’homme et de libertés fondamentales.



    Signatures membres du Conseil Fédéral : Mychelle Rieu (Région Hors de France), Françoise Diehlmann (IDF), Benjamin Joyeux (IDF), Alain Lipietz (IDF), Jean-Louis Roumegas (Languedoc-Roussillon), Lucile Schmid (IDF), Sergio Coronado (Hors de France), Nadia Azoug (IDF), Pierre Hémon (Rhöne-Alpes), Nabila Keramane (IDF), Nicole Juyoux (Aquitaine), Denis Baupin (IDF), Danielle Auroi (Auvergne), Marie Toussaint (IDF), Mikaël Marie (Basse-Normandie), Emmanuelle Cosse (IDF), Anne-Laure Faugère (PACA), Michel Bock (IDF), Alexis Braud (Pays de Loire), Dan Lert (IDF), Eric Loiselet (Champagne-Ardennes), Patrick Farbiaz (IDF), Bérangère Dauvin (Basse-Normandie), Christelle De Crémiers (IDF), Brigitte Brozio (Midi-Pyrénées), Anne Souyris (IDF), Alain Cordier (Bourgogne), Patrick Franjou (IDF), Elen Debost (Pays de Loire),  Jean Lafont (IDF), Anne Eon (Pays de Loire),   Régis Godec (Midi-Pyrénées),  Catherine Hervieu (Bourgogne), Jean-Jacques Kogan (Pays de Loire),  Antoine Maurice (Midi-Pyrénées), Maurice Morel (Rhône-Alpes), Dominique Normand (Limousin),  Claude Taleb (Haute-Normandie), Pierre Minnaert (IDF).
    Bureau Exécutif : Jean-Philippe Magnen (Pays de Loire), Cécile Duflot (secrétaire nationale EELV), Jean Desessard (IDF), Pascal Durand (porte- parole), Jérôme Gleizes (IDF), Marie Bové (Aquitaine), Elise Löwy (Basse-Normandie) Nicolas Dubourg (Languedoc-Roussillon),
    Soutiens : Cécilia Joxe (IDF), Dany Cohn-Bendit (député européen), Eva Joly (députée européenne), Nicole Kiil-Nielsen (Députée européenne), Dominique Voynet (Sénatrice, Ile de France), Noël Mamère (Député), Hélène Flautre (député européenne),  Alima Boumediene-Thiery (sénatrice),  Djamila Sonzoni (Alsace), Farid Frédéric Sarkis (IDF),  Zine-Eddine Mjati (Région Hors de France),  Gilles Bénard (IDF), Hamza El Kostiti (Nord Pas de Calais), Philippe Chusseau (Pays de Loire),  Eva Aldridge (Limousin), Hervé Morel (IDF), Gilles Seignan (IDF), Sophie Bringuy (Pays de la Loire), Kamel Boubguel (IDF), Frédéric Supiot (IDF), Gilles Lemaire (IDF)

    MOTION ADOPTEE A L'UNANIMITE LE 17 SEPTEMBRE 2011



    [1] Cinq questions (les frontières, Jérusalem, les colonies, l'eau, les réfugiés) devaient être négociées à la fin de la période intérimaire de cinq ans qui s'achevait en 1999.
    [2] Bulgarie, Roumanie, République Tchèque, Slovaquie, Pologne, Hongrie, Chypre et Malte
    [3] Les juristes s'accordent sur 4 critères: une population, sur un territoire, doté d'un gouvernement, lequel est indépendant de tout autre