mercoledì 30 novembre 2011

Speciale Lucio Magri

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Il comunista fino in fondo che per sé ha scelto una morte politica
(da "La Stampa")

Il ribelle del "manifesto" che seppe raccontare la sinistra
(dal "Corriere")

Fausto Bertinotti da "Liberazione":
Un uomo tutto interno alla storia operaia e comunista

Quell'incolmabile senso di solitudine gli è caduto addosso
(da "L'Unità)

Ichino: "Criticai Martone ma ora approvo la scelta"

I nuovi passi del nuovo governo...

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Ora siete diventati credibili ma dovete tagliare il debito almeno del 25%

Da "Repubblica", un'intervista a Nouriel Roubini.
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Il solito tiro alla fune con Lagarde e Draghi

Leggi l'analisi di Federeico Fubini dal "Corriere" cliccando QUI .

La manovra di Monti, un suicidio

Secondo Ferrero, leader di Rifondazione, porterà l'Italia a fare più velocemente la fine della Grecia.
Leggi l'intervista di Alessandra Ricciardi da "Italia oggi" cliccando QUI.

La sovranità tedesca

Di Barbara Spinelli da Repubblica

Sta diventando uno dei luoghi comuni dei nostri tempi: l'idea che l'Europa, costretta a difendere con brutali austerità la sua moneta unica, sia incompatibile con la democrazia fin qui conosciuta. Uno dopo l'altro si consumano governi, partiti, e nuovi leader vanno al comando. Son detti tecnocrati: più semplicemente, sono uomini spinti ad apprendere presto, a caldo, una nuova arte della politica. La vera questione non è l'assenza di democrazia, non è il famoso deficit democratico. Lo slogan è una magica litania, un mantra escogitato per scompigliare gli animi nascondendo loro la realtà: non la democrazia è minacciata, ma la sovranità che le nazioni europee pretendono di possedere. Tutte le nazioni, compresa quella che più di altre sembra padrona di sé e dell'Europa: la nazione tedesca.

L'esempio più lampante di questa confusione fra crisi della democrazia e crisi della sovranità è infatti la Germania di Angela Merkel, che grazie alla sua potenza sta mettendo a rischio con rigido dogmatismo non solo l'Euro, ma la Comunità nata nel dopoguerra. È in nome della democrazia, della supremazia assoluta del popolo sovrano e dei vincoli impliciti in tale supremazia, che il Cancelliere si adopera perché non nasca una solidarietà attiva tra gli Stati della zona euro. Il dilemma, qui come altrove, non è oggi tra democrazia e tecnocrazia ma tra democrazia nazionale e democrazia europea.

Le iniziative tedesche degli ultimi anni (dalla sentenza della Corte costituzionale del 30 giugno 2009, da quella emessa già nel '93) mirano a questo: dare preminenza alle istituzioni rappresentative nazionali (in primis il Parlamento) e rifiutare un'Unione più solidale in nome del deficit democratico che essa implicherebbe. I populisti sono i primi a profittare di quest'emiplegico rapporto con la realtà, e ben contenti si appropriano del mantra dimenticando che la democrazia va oggi governata con tutto il corpo della politica: nazionale ed europeo. La professione di fede democratica è divenuta per i populismi di destra e sinistra un sotterfugio per svilire l'Unione europea. Per nobilitare passioni non nobili e occultare, appunto, i fatti che ci stanno davanti. Le chiusure tedesche hanno molto in comune con i populismi, che sequestrano la democrazia rattrappendola come una stoffa mal lavata.

La crisi sta mostrando che ben altro è il dilemma: non lo spegnersi democratico, non l'Europa delle élite. Quel che la crisi sta estraendo dall'ombra in cui è relegata, con la violenza di un forcipe, è l'incapacità degli Stati di capire che le sovranità hanno cessato da tempo di essere assolute, che ogni cittadino e ogni Stato è immerso ormai in una scena cosmopolitica cui Habermas dà il nome di "politica interna mondiale". Henrik Enderlein, un economista socialdemocratico che da tempo critica il nazionalismo del proprio governo, parla di inattitudine a riconoscere la "comunità di destino" europea, e a darle sostanza. Confondere la questione della democrazia con quella della sovranità nazionale significa schivare il compito più urgente: reinventare democrazia e politica nelle nazioni e in Europa, contemporaneamente.
Può stupire che proprio la Germania sia all'avanguardia in questo nascondimento del reale: il paese che con più vigore, dal dopoguerra, non solo consentì a drastiche deleghe di sovranità ma le invocò, sperando nell'Europa politica. Quella passione non è seppellita ma è entrata in un letargo intriso di esitazioni, lentezze, tentazioni populiste. Questa è l'emiplegia inasprita dalla Merkel: solo l'occhio nazionale vede, giudica. Solo le rappresentanze nazionali contano - Corte costituzionale, Parlamento federale, Banca centrale tedesca - a scapito di organi sovranazionali nati dal consenso di popoli e Stati come la Commissione, il Parlamento europeo, la Banca centrale di Francoforte.

Se così stanno le cose vuol dire che anche l'immagine della Germania-condottiera europea è affatto inappropriata: Berlino comanda, sì, ma non dirige. Il ministro degli Esteri Sikorski ha parlato chiaro ai tedeschi, lunedì a Berlino: "Sarò probabilmente il primo ministro polacco a dirlo: temo assai meno la potenza della Germania che la sua inattività. Siete divenuti nazione indispensabile in Europa: non potete fallire nella guida". È il peccato di nolitio, non volontà, che Berlino commette. Due forze la dominano, solo in apparenza dissimili: i sondaggi e la Bundesbank, un'istituzione mitizzata perché tutte le paure tedesche trovano in essa conforto, da oltre mezzo secolo. Anche in patria dunque la Merkel non è leader. Niente a vedere con Kohl, che assieme a Mitterrand creò la moneta unica e non esitò a contrastare l'allora governatore della Bundesbank, Tietmeyer. Niente a vedere con l'ex cancelliere Schmidt, che nel '96 scrisse una durissima lettera aperta a Tietmeyer, e accusò la Bundesbank di essere "uno Stato nello Stato".
Oggi sta accadendo esattamente quel che Schmidt paventava: se l'Europa vede in Berlino un gendarme arrogante, è a causa delle paure che la Bundesbank attizza in patria e fuori. In Germania mi dicono: è come se la politica tedesca avesse perso la battaglia condotta anni fa con i guardiani del Marco, e quegli stessi guardiani (quello Stato nello Stato) pilotassero la barca. Come se prendessero una rivincita, sfruttando la più profonda delle passioni tedesche: la paura.
Se davvero la Merkel ascoltasse la democrazia, oggi dovrebbe tener conto che la paura di un'Unione europea più stretta non è affatto dominante in Germania. Il Cancelliere è confortato da sondaggi, industriali, esperti. Ma altre forze, in casa ed Europa, gli resistono. In casa, è criticato aspramente da socialdemocratici e Verdi. Secondo Sigmar Gabriel, capo della Spd, solo un governo economico europeo e gli eurobond eviteranno la rovina: la Merkel è paragonata a Brüning, il Cancelliere che aprì la via a Hitler con politiche deflazionistiche. Ma obiettano anche molti democristiani. Kohl per primo: il 24 agosto, ha detto che il Paese "ha perso il compasso, dilapidato il capitale di fiducia" in Europa. Werner Langen, presidente del gruppo Cdu/Csu al Parlamento europeo, dichiara che per fronteggiare l'odierna speculazione "la decisione spetta alla Bce (dunque alle istituzioni europee legittimate a farlo, ndr) che deve custodire la stabilità dei prezzi ma anche la messa in sicuro della liquidità sui mercati". Elmar Brok, esperto Cdu di politica europea, dice: "C'è qualcosa nella discussione tedesca sul ruolo della Bce che mi sfugge completamente".

Ancora più forte l'opposizione europea, e non solo di paesi contagiati come Italia o Grecia. Nei giorni scorsi, hanno preso le distanze da Berlino governi sin qui devoti alla Merkel: il ministro delle finanze olandese e finlandese chiedono ora quel che a Berlino è eresia: un "ruolo più attivo" della Bce. In sostanza, chiedono l'abbandono della dottrina tedesca della "casa in ordine", imperante in Germania da quasi un secolo: la dottrina secondo cui prima va ripulita la propria casa, e solo dopo scatta la solidarietà internazionale o sovranazionale.

In nome del popolo e dei sondaggi, dunque di una visione solo nazionale della democrazia, Angela Merkel sta minando l'Europa, la natura sovranazionale del suo ordine democratico. Il 23 novembre ha aggredito Barroso - definendo "inquietanti e sconvenienti" le sue proposte sugli eurobond - violando il diritto di proposta conferito dai Trattati all'esecutivo europeo. Dicono che il Cancelliere preferisce la tecnocrazia alla democrazia. Non è vero: abusando della democrazia, ne fa un'arma della paura. Schmidt denunciò proprio questo, nella lettera del '96, quando evocò la "monomaniaca ideologia deflazionistica della Banca centrale che negli anni '30-32 preparò l'avvento di Hitler". E quando denunciò le "ipocondriache paure tedesche di fronte all'innovazione".

martedì 29 novembre 2011

Cuneo, le primarie che non ti aspetti: vince l'outsider Garelli

Di Anna Cattaneo
Liberazione.it
29/11/2011

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A Cuneo, come Milano, le primarie che non ti aspetti. Il capoluogo della Granda, chiamato a decidere il volto della sinsitra che correrà alle elezioni amministrative della primavera 2012, ha scelto il suo Pisapia. A vincere la sfida fra i cinque candidati è infatti l’outsider Gigi Garelli, cinquantenne professore di filosofia, appoggiato da Rifondazione comunista e dalla “Costituente dei Beni comuni”. Docente distaccato all’Istituto storico della Resistenza, molto attivo nel volontariato cattolico, Garelli ha sconfessato ogni previsione sbaragliando i tre nomi messi in campo dal PD, tra questi l’ex sindaco Elio Rostagno, e la candidata di SEL Franca Giordano. Primarie che a Cuneo esordiscono con un risultato doppiamente inatteso. Innanzitutto per l’affluenza, un record in Italia con l’11,9% dei votanti sui 44.575 aventi diritto. Quasi il doppio rispetto a Torino dove a febbraio votò il 6% e ben oltre il precedente record del 9,3% a Reggio Emilia. Alle consultazioni, che si sono svolte domenica con un seggio centrale nel palazzo congressi della Provincia e gli altri nelle quindici frazioni, hanno potuto partecipare anche i giovani di età compresa fra i 16 e i 17 anni e gli immigrati regolari residenti in città. In nottata l’esito dello scrutinio ha visto prevalere Gigi Garelli con il 27,26% delle preferenze (1.456 su 5.258). Al secondo posto Elio Rostagno con il 22,25%. Imprenditore 64enne, Rostagno si è da subito presentato come il candidato forte del Partito Democratico per il quale è stato consigliere regionale e provinciale. Due le candidature “in rosa” che hanno raccolto consensi soprattutto nelle frazioni. Si tratta del provveditore agli studi Franca Giordano, volto del partito di Nichi Vendola, che ha ottenuto il terzo posto con il 21,78% mentre Patrizia Manassero, esponente del Pd e assessore al Bilancio del Comune di Cuneo, ha sfiorato il 18%. Meno del 11% per il terzo nome della rosa democratica, il vicesindaco Giancarlo Boselli, al quale sono andati 569 voti. “Una partecipazione eccezionale – commenta Fabio Panero, segretario provinciale di Rifondazione e consigliere comunale -. Una grande vittoria popolare che ci ha visti impegnati in una campagna come in passato. Ci siamo impegnati casa per casa, andando a spiegare il nostro programma in ogni quartiere, parlando con la gente, come in passato ha sempre fatto la sinistra sociale non quella salottiera”. A colpi di spaghettate, Facebook e Twitter, la campagna di Gigi Garelli ha puntato su un programma di rottura rispetto all’attuale giunta guidata da Alberto Valmaggia. In primo piano il riesame del piano regolatore, con una moratoria sull’edificabilità e sulla grande viabilità, in particolare la tangenziale Est-Ovest che collega il capoluogo alle vallate lungo il torrente Gesso e il fiume Stura. Poi la richiesta di maggiore trasparenza nelle nomine a incarichi pubblici, equità fiscale, rispetto del paesaggio e apertura al dialogo interculturale. Sono infatti i “beni comuni” la cifra che caratterizza il programma elettorale del professore di filosofia, sostenuto da Rifondazione e da un nuovo soggetto politico, la “Costituente dei Beni Comuni”, che raggruppa esponenti di associazioni locali e movimenti. Spiega il segretario di Rifondazione Fabio Panero: “Si tratta di un progetto nuovo, che è stato capace di riunire tutto un mondo che va dal nostro partito al cattolicesimo sociale, unito da dall’idea che è un altro mondo è possibile, che si può cambiare il modo di fare politica”. Una campagna, quella di Garelli, che molto ha puntato sul coinvolgimento dal basso, così come è stato per Giuliano Pisapia di cui ha scelto il colore, l’arancione. Archiviato il successo delle primarie, ora il “cattocomunista” Garelli dovrà incanalare l’entusiasmo suscitato dalla sua candidatura nella sfida del voto primaverile. Sul versante politico opposto, Lega e Pdl sembrano intenzionati a correre per conto proprio. Il nome per il Carroccio sarà quello di Claudio Sacchetto, assessore regionale all’agricoltura, indicato dallo stesso Calderoli a Pian del Re nel girono del rito dell’ampolla sul Po.

Incredibilie: alla difesa l'uomo di Borgogni

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di SAra Nicoli, Il Fatto Quotidiano
29/11/2011

Milone sottosegretario coinvolto nell'inchiesta Finmeccanica


"Subito misure da 11 miliardi" ecco il dossier europeo su Roma

Il rapporto Rhen: pensioni bloccate se il Pil è negativo. I radditi più bassi esclusi dal congelamento degli assegni previdenziali. Richiesti interventi sui licenziamenti e la riforma del pubblico impiego

Di ALBERTO D'ARGENIO
Repubblica, 29/11/2011
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Sedici pagine per dire che serve subito una manovra da almeno 11 miliardi di euro, per raccomandare di toccare le pensioni e l'articolo 18. E per ricordare che l'immobilismo del governo Berlusconi ha portato l'Italia a un passo dal baratro e per dare piena fiducia a Monti, la cui agenda di riforme appare ben più ambiziosa di quella faticosamente elaborata dal trio Berlusconi-Bossi-Tremonti. La firma in calce al documento è quella del commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn. Che sull'Italia ha lavorato sodo, almeno dalla metà di ottobre quando l'Europa ha deciso di commissariare il Cavaliere e con lui il Paese. Da allora a Roma è arrivata la lettera con 39 domande a Tremonti, si sono ripetute le missioni di monitoraggio dei tecnici Ue, per finire con la visita dello stesso Rehn di venerdì scorso. Il frutto di questo lavoro è il documento riservato dal titolo "Addressing Italy's high-debt/low-growth challenge" - che Repubblica è in grado di anticipare - alla base del giudizio sull'Italia che questa sera sarà pronunciato dall'Eurogruppo.

Innanzitutto si spiega come le debolezze strutturali del Paese - il debito pubblico e la bassa crescita - "sono precedenti alla crisi globale, non partono da essa". Ma nonostante le sue debolezze, "a differenza di altri Paesi, l'Italia è entrata nella crisi con un alto tasso di risparmio e con un settore bancario robusto". Cos'è andato storto allora? Roma, certifica la Ue, ha perso la fiducia degli investitori per l'incapacità di fare le riforme strutturali evidenziata "negli ultimi dieci anni", quelli segnati dal Cavaliere, nonostante i ripetuti richiami della Ue e le condizioni economiche favorevoli.

Ora la percezione della nazione è cambiata, anche se il lavoro da fare per Monti è immane. "L'Italia deve affrontare rapidamente le sfide formidabili che ha di fronte, ma il nuovo governo ha il know-how" per farlo. E ancora, "nel formulare la sua agenda deve essere ambizioso e per invertire l'umore dei mercati le riforme chiave devono essere fatte subito". Ma alla Ue non sfugge che per ribaltare il Paese in pochi mesi serve l'appoggio dei partiti, delle parti sociali e dell'opinione pubblica. Ecco perché si consiglia al premier di "spiegare chiaramente e in modo convincente l'insostenibilità dei costi di un fallimento e i benefici per la società di un successo". Già, perché il rischio di default "può aumentare rapidamente in assenza di risposte adeguate" che è ancora possibile dare, visto che l'aumento degli spread sul breve periodo ha "un impatto limitato sul bilancio", ma "se restano persistenti aumentano il rischio" di crac con "ripercussioni" gravissime per tutta le moneta unica, che rischierebbe di sparire. Segue la parte tecnica. Sui conti pubblici Bruxelles conferma che il pareggio di bilancio nel 2013 "è un pre-requisito chiave per riguadagnare credibilità e migliorare le prospettive di crescita nel medio termine", per questo chiede subito una manovra da undici miliardi e per ora non prende in considerazione la richiesta di Monti di privilegiare le riforme per la crescita vista la peggior performance del Pil.

E non potrebbe fare altrimenti, lo stesso Professore chiede di farlo dopo un dibattito a livello europeo che valga per tutti che non è ancora partito. Ergo non si scappa ai numeri: Tremonti aveva promesso di chiudere il 2012 con un deficit dell'1,6% in modo da azzerarlo nel 2013, ma la crescita italiana è stata inferiore alle sue previsioni e quindi resta un buco dello 0,7% da coprire. Undici miliardi, appunto. E visto che l'Ocse prevede che nel 2012 le cose peggioreranno ancora, nei prossimi mesi si discuterà di nuovi interventi.

Rehn esamina nel dettaglio tutti gli aspetti della politica economica. In molti punti la pensa come Monti. Come quando chiede lotta all'evasione anche con l'abbassamento dei pagamenti in cash o con lo spostamento della tassazione dal reddito "ai consumi (Iva, ndr) e alle proprietà (Ici, ndr)". Sulle pensioni tra le altre cose chiede "la sospensione dell'indicizzazione automatica degli assegni all'indice dei prezzi, tranne che per gli assegni più bassi, in caso di crescita negativa". In generale sulla previdenza - così come su lavoro e concorrenza - giudica l'agenda Monti "più ambiziosa" di quella di Berlusconi. Ma sul lavoro, senza citarlo, entra nel dibattito sull'articolo 18: bisogna "eliminare le rigidità" "per esempio sostituendo l'attuale sistema di protezione attraverso il reintegro obbligatorio (in vigore per le aziende con più di 15 dipendenti) con il pagamento di un'indennità di liquidazione legata allo stipendio percepito". Sulla pubblica amministrazione, invece, l'Europa promuove il governo Berlusconi: "La riforma Brunetta va applicata integralmente". In generale le riforme approvate (poche) o promesse (molte) da Berlusconi sono la base da cui partire, ma non basta, servono interventi più ambiziosi e difficili "ridurre le vulnerabilità". E se quello su Berlusconi era un commissariamento ad personam, sull'Italia di Monti resta in piedi il monitoraggio deciso lo scorso ottobre: ecco perché Bruxelles al governo chiede un'agenda dettagliata di riforme con tempi di applicazione ancorati a una vera e propria road map.

Il vero conto della crisi USA: 7700 miliardi di dollari

 di Massimo Gaggi, corriere della Sera

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Dai cattolici allo strappo con il Pci una storia a sinistra fuori dagli schemi

Lucio Magri aveva 79 anni. Cominciò l'attività politica con la Dc e poi incontrò il comunismo. Uomo di fascino, in occasione della radiazione dal partito fu definito "ferratissimo"

Da Repubblica, 29/11/2011
di NELLO AJELLO

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Lucio Magri
di NELLO AJELLO

UN PILASTRO portante del "Manifesto", rivista e partito. L'interprete d'una maniera di concepire la sinistra italiana diversa da ogni schema. Questo è stato in sintesi Lucio Magri. Ma è una sintesi che non esaurisce la singolarità del personaggio. Perché lui aveva, rispetto ai compagni della sua stagione dorata - dalla Rossanda a Pintor, da Natoli a Caprara, da Luciana Castellina a Valentino Parlato - un'origine più avventurosa. E, soprattutto, una preistoria precoce.

Precoce, Magri lo era stato in maniera spettacolare. Nato a Ferrara nel 1932 (e poi cresciuto a Bergamo), nei primi anni Cinquanta già figurava fra i redattori della rivista mensile "Per l'azione", un organo dei giovani della Dc cui si consentivano attacchi quasi temerari alle "brutture del capitalismo". Del Magri di allora ci rimane un ritratto che ne fece anni fa Giuseppe Chiarante, suo amico d'una vita: "Era ammirato dalle compagne di scuola", così egli ricorda, "per la sua presenza atletica e perché considerato molto bello". Quello della prestanza fisica resterà per lui una costante. Che poi fosse interessato "alla politica" veniva dato per scontato. Quando, nel 1955, esce un altro periodico democristiano di sinistra, "Il Ribelle e il Conformista", è lui, Magri, a condividerne di fatto la direzione con Carlo Leidi. Fu lì che appare a firma di Cesare Colombi (è uno pseudonimo di Magri) un articolo dal titolo "Bilancio del centrismo", nel quale di delinea un'ipotesi di apertura a sinistra - "senza contemplare una contrapposizione" fra il Psi e quel Pci, che in casa democristiana è il nemico. Sta intanto per uscire un'ennesima rivista, "Il Dibattito politico", che, legata all'orbita ideologica di Franco Rodano, è diretta da Mario Melloni, con condirettore Ugo Bartesaghi: per misurarne le qualità ereticali basti ricordare che i due saranno espulsi dalle file dello Scudo crociato per aver votato contro l'ingresso dell'Italia nell'Unione europea occidentale.

Il gruppo redazionale nel quale Magri esercita con passione il suo ruolo riunirà poi, accanto al solito Chiarante, intellettuali del rango di Ugo Baduel, Giorgio Bachelet, Edoardo Salzano (per citarne qualcuno). Programma dichiarato è "la ricerca delle necessità che sollecitano il mondo cattolico e quello comunista al dialogo". Potrà un simile progetto attuarsi dentro la DC?. Magri e gli altri sono i primi a dubitarne. La diaspora verso "la sinistra storica" è nei fatti. La "vita democristiana" di Lucio Magri è stata breve e intensa: più lunghi saranno il tragitto verso il Pci e poi la permanenza in quel partito. Nell'estate del '58, Giorgio Amendola, responsabile dell'organizzazione, lo riceve nel suo studio a Botteghe Oscure. Con Magri c'è il quasi gemello Chiarante. "Parlammo un po' di tutto", racconterà quest'ultimo. L'impressione dei due, che avevano sporto regolare domanda, fu che l'illustre ospite li ritenesse "forse non a torto, degli intellettuali un po' astratti". Gli raccomandò, comunque, "di avere delle esperienze di base". Così avvenne. Magri se ne tornò a Bergamo, diventando prima segretario cittadino, e, due anni dopo, vicesegretario regionale. Poco più tardi, a Roma, prese a lavorare nell'ufficio studi economici. La sua fama tardava a diffondersi. Non bastava a consolidarla il fatto di essere vicino, come idee, a Pietro Ingrao: gli ingraiani erano tanti.

Lo aiutò alquanto l'amicizia della Rossana Rossanda, e fu Luciana Castellina a procurargli un visto d'ingresso in Polonia dove si svolgeva un'assise di giovani comunisti. In casa di Alfredo Reichlin conobbe Enrico Berlinguer, senza ricavarne alcun pronostico sulla sua successiva, luminosa carriera. Nel Pci si discuteva tanto. Fra i temi, il trauma causato dal XX Congresso, l'avvento di Krusciov. Non fu occasionale l'accoglienza che a Magri riservò il settimanale "Il Contemporaneo", diretto da Salinari e Trombadori, pubblicandogli vari pezzi polemici. Nel novero delle "bestie nere" di Magri era entrato, accanto al capitalismo che aveva acuito le sue riserve nella fase dc, il riformismo come una forma di inerte ipocrisia a sinistra. Col tempo, nella galassia degli ingraiani più fattivi, il nome di Magri divenne di casa. Ma non fu certo suo esclusivo merito l'evento cruciale che stiamo per raccontare. Porta la data del 23 giugno 1969 l'arrivo in edicola, a Roma, della rivista "Il Manifesto", che subito apparve un caso esemplare di eresia politica. Stampata a Bari dalla casa editrice Dedalo e diretta da Magri e Rossanda, il periodico è promosso anche da Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara, Luciana Castellina, Valentino Parlato. Sulle prime, Magri vorrebbe chiamarlo "Il Principe", ma poi rinunzia. In un suo volume, "Ritratti in rosso", Massimo Caprara descriverà i responsabili dell'avventura: "Rossanda lucidamente egemone, Pintor imprevedibile, Natoli rigoroso". A Magri assegna un superlativo: "ferratissimo".

Ma che cosa c'è scritto nella rivista-scandalo, il cui primo numero ha venduto 50 mila copie? Si riserva un devoto rilievo alla "rivoluzione culturale" cinese. Si biasimano certi anticipi di "compromesso" fra Pci e Dc. Sotto il titolo "Praga è sola", si tesse un elogio della "primavera" di quella capitale, che Mosca ha represso. A Magri e Rossanda venne rivolto un vano invito a ritrattare. Rimbalzarono da "Rinascita" all'Unità" i preannunzi d'un "redde rationem" rivolto ai reprobi. La liturgia della repressione è macchinosa. Una Comissione, detta "la Quinta", presieduta da Alessandro Natta, delibera la soppressione della rivista, ma la decisione viene delegata al Comitato centrale, dove Rossanda difende con dignità le posizioni del Manifesto. Alla fine, lo stesso Comitato centrale delibererà - è ormai il novembre '69 - la "radiazione" dal Pci della stessa Rossanda, di Pintor e Natoli. Pene equivalenti vengono comminate a Caprara, Castellina e Parlato. Un analogo "provvedimento amministrativo" (vaghezza del lessico repressivo!) è applicato ai danni del "ferratissimo" Magri.

Fine anni Cinquanta: fuori dalla Dc. Fine anni Sessanta: fuori dal Pci. Ma di Lucio Magri si continuerà a parlare. Almeno un po'. Nel settembre del 1977, sul Manifesto, egli attacca Berlinguer per la sua decisione di reprimere chiunque si collochi alla sinistra del Pci, e questa sua protesta trova l'appoggio di Norberto Bobbio (è Giuseppe Fiori a ricordare l'episodio nella sua biografia del leader sardo). Alla sinistra del Pci, egli di fatto era collocato, avendo assunto la segreteria del Pdup, partito di unità proletaria, con il quale il gruppo del Manifesto s'era fuso. Nel 1984 lo si ritrova daccapo nel Pci, quando il Pdup vi confluisce. Sempre in Parlamento, a volte in questo o quel vertice di partito. Fino alla finale dissoluzione del Pci: Rimini, febbraio 1991. La scena mostra la patetica assise nella quale per pochi voti Achille Occhetto non viene eletto segretario del partito che subentrerà al Pci (vi sarà reintegrato poco più tardi). Chi era presente in quell'occasione conserva un'immagine di Lucio Magri. Lo ricorda in piedi, mentre, apprendendo l'esito delle votazioni, agita il pugno chiuso e scandisce un antico slogan: "Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-tung!".

lunedì 28 novembre 2011

Concita De Gregorio: “Il Pd ha perso di proposito le elezioni regionali del Lazio”

Da Il Fatto quotidiano : clicca qui

L'ex direttore de l'Unità, ospite all'assemblea nazionale di Tilt a Pisa, ha raccontato i particolari della strategia del Partito democratico. Che volutamente non ha appoggiato il referendum , il NO B. Day, le manifestazioni studentesche e, soprattutto, la candidatura di Emma Bonino a presidente del Lazio. E i Radicali vanno all'attacco

Il Partito democratico ha perso di proposito le elezioni regionali nel Lazio per far vincere laPolverini e, in tal modo, rafforzare Fini. E poi. Il Pd non ha aderito alle campagne degli studenti perché “tanto non votano”, non ha sostenuto il “No B. Day” perché “non è una manifestazione” creata dai democratici e non ha appoggiato il referendum perché “tanto non raggiunge il quorum”. Fino a qualche giorno fa erano solo delle congetture ad appannaggio dei retroscenisti politici, oggi invece sono diventate qualcosa di più. Merito di Concita De Gregorio. L’ex direttrice de L’Unità, infatti, intervenendo sabato scorso all’assemblea nazionale di Tilt a Pisa, ha rivelato alla platea particolari per certi versi imbarazzanti sulla strategia del maggior partito di opposizione che, a sentire la giornalista di la Repubblica, le avrebbe impedito di portare avanti campagne politiche sulle pagine del quotidiano fondato da Gramsci.

Particolarmente interessante, in tal senso, ciò che è avvenuto nelle stanze del potere dei democratici dopo la candidatura di Emma Bonino alle elezioni regionali del Lazio. La ricostruzione della questione direttamente dalle  parole di Mario Staderini. Il leader dei Radicali, infatti, dopo aver appreso i retroscena rivelati dalla De Gregorio, ha scritto una nota in cui riprende le parole della ex direttrice de l’Unità.

“Durante l’assemblea nazionale di TILT dello scorso 26 novembre – scrive Staderini – Concita De Gregorio ha confermato quanto ci era parso subito oggettivo ed evidente: il Partito Democratico ha voluto far perdere Emma Bonino alle Regionali del Lazio”.  A questo punto, l’esponente radicale ha ripreso la ricostruzione della giornalista, che ha detto testualmente: “Quando Emma Bonino si autocandidò a Roma per assenza di candidati del centrosinistra, aveva tutte le possibilità di vincere, lo dicevano i sondaggi e le esperienze di vita. Siccome il Pd non sembrava di voler sostenere la candidatura di Bonino, sono andata da un altissimissimo dirigente nella sede del Pd e ho chiesto: ‘Siccome esiste un candidato del centrosinistra ed uno del centrodestra, io vorrei sapere se per caso voi avete deciso di non sostenere questa candidatura. Siccome mi sembra che sia cosi, diciamocelo, è ipocrita e inutile che l’Unità faccia la campagna quando nei circoli del Pd arrivano indicazioni di non fare volantinaggio’”.

(Da RadioEco di Pisa)

La risposta dell’altissimissimo dirigente del Pd? Concita De Gregorio non ha usato giri di parole: “Mi ha risposto così – ha detto – : ‘A noi questa volta nel Lazio ci conviene perdere. Perché, siccome la Polverini è la candidata di Fini e siccome è l’unica sua candidata della tornata, se vince, Fini si rafforza all’interno della sua posizione critica del centrodestra e, finalmente, si decide a mollare Berlusconi e a fare il terzo polo, insieme a Casini. E noi avremmo le mani libere per allearci con Fini e Casini e andare al governo. Senza ovviamente che gli elettori ci mollino, senza perdere troppo consenso. Perché non saremo noi a condurre questa operazione, noi perdendo oggi daremo solo il via, il resto lo farà la crisi economica’”.

Alla luce della rivelazione, Mario Staderini è passato all’attacco: “Questa rivelazione avrebbe del clamoroso se non fosse che avevamo denunciato tutto a tempo debito – ha commentato il leader dei Radicali -. Bastava infatti guardare il budget della campagna elettorale del centrosinistra, che nel caso della Bonino era un quarto di quanto speso per Marrazzo. A questo punto – ha chiesto Staderini – , al di là del dirigente citato dalla De Gregorio e che dall’audio sembrerebbe essere individuato in Fioroni, credo che Pier Luigi Bersani debba dire la verità e chiedere scusa agli elettori che sostennero la candidatura di Emma Bonino”.

Il messaggio americano: l'austerità non serve

Federico Rampini (da Repubblica)

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La UE nel baratro, tutta colpa della Germania

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di Romano Prodi

L'Eurotower rompa la spirale negativa

Michael Spence, premio Nobel per l'Economia: non si puo' reggere il meccanismo austerità-recessione-indebitamento.

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Contratti, rivoluzione alla Gd Referendum su tutti gli accordi

Ma la Cisl studia ricorso per antisindacalità
Alberani: «È una bomba contro di noi»

Dal "Corriere", Bologna.
Segnalato da Nicola Melloni

Alla Gd si vota (e si voterà) su tutto. A cominciare da oggi con il referendum che dovrebbe dare il via libera all’ipotesi di intesa tra l’azienda e la Fiom. Sull’Aventino, invece, i metalmeccanici della Cisl (Fim) e quelli della Uil (Uilm) che hanno abbandonato il confronto anche se alla Gd, storico fortino della tute blu Cgil, le due sigle restano in minoranza. Sul tavolo l’ipotesi di accordo aziendale che ha spaccato i sindacati. Perché, per le tute blu della Cgil, d’ora in avanti i lavoratori di via Battindarno si dovranno esprimere su piattaforme e accordi che saranno validi solo se approvati dalla maggioranza dei dipendenti. Mentre per le altre due sigle continuano a essere valide le norme nazionali per le quali è sufficiente il placet dei rappresentanti dei lavoratori.

Oggi i dipendenti dell’azienda inizieranno le consultazioni che continueranno anche la settimana prossima. Per avere il lasciapassare bisognerà ottenere la maggioranza assoluta dei consensi. Un risultato che non dovrebbe essere a rischio visto che la Gd è da sempre un enclave dei Landini boys. Se la settimana prossima la vittoria del sì fosse messa nero su bianco in via Battindarno si aprirebbe una fase totalmente nuova delle relazioni sindacali. Perché l’ipotesi di accordo, avversato da Cisl e Uil, prevede l’obbligo della consultazione tra gli addetti dell’azienda per ogni passaggio. Per presentare una piattaforma all’azienda ogni sigla deve passare al vaglio del referendum. E l’azienda si impegna a prendere in esame solo le proposte che sono state approvate dalla maggioranza dei dipendenti. In caso di vittoria della linea-Fiom anche dopo il confronto con la proprietà si ritornerebbe al voto per avere la conferma da parte delle tute blu. In sostanza l’accordo tra sindacati e azienda diventa valido solo se ad approvarlo è la maggioranza dei dipendenti. Se alla Gd passerà il modello dei lavoratori che votano su tutto sarà una mezza rivoluzione. Perché si tratta di un’azienda che è tra i fiori all’occhiello dell’industria bolognese: leader mondiale nelle macchine per la produzione e il confezionamento delle sigarette mettendo insieme un fatturato di 538 milioni. Un’intesa che potrebbe anche assumere una forte valenza nazionale. Tanto che, a quanto pare, in questi giorni, sarebbero intervenuti anche il segretario nazionale della Cisl, Raffaele Bonanni, e il numero uno della Uil, Luigi Angeletti.

Della partita anche la Confindustria nazionale che attraverso Federmeccanica, l’associazione che riunisce gli imprenditori metalmeccanici, avrebbe provato, invano, a trovare una mediazione che riportasse Cisl e Uil al tavolo: i due sindacati temono soprattutto di perdere rappresentanza. Del resto l’ipotesi della Gd, con l’obbligo della consultazione tra i lavoratori, appare in contrasto con l’accordo del 28 giugno. Quello sottoscritto a livello nazionale da tutte le sigle sindacali con Confindustria, e contrastato dalla Fiom, che consente ai contratti aziendali di regolare, a certe condizioni, materie demandate dal contratto nazionale. In più la linea-Gd è l’esatto opposto del modello della Fiat. Dove ai sindacati non firmatari degli accordi viene, di fatto, tolta l’agibilità sindacale. Mentre in via Battindarno anche chi non ha sottoscritto l’intesa (Cisl e Uil) potrà in futuro presentare le sue proposte e sottoporle ai lavoratori. Anche se, visti i rapporti di forza all’interno dell’azienda, è quasi impensabile immaginare che la Fiom perda la maggioranza.

IL RICORSO La Cisl di Bologna non è disposta a stare a guardare dopo l'intesa separata tra la Gd e la Fiom-Cgil: il segretario del sindacato di via Milazzo, Alessandro Alberani, questa mattina ha spiegato che si sta valutando una denuncia per condotta antisindacale contro l'azienda. Perchè l'ipotesi di accordo che è stata raggiunta, dice Alberani a Radio Tau, «discrimina gli altri sindacati» e rischia «di essere una bomba» perchè il meccanismo per cui devono essere i dipendenti a dare il via libera ad accordi e piattaforme, può essere riproposto in altre aziende «riportandoci nel casino sindacale di qualche anno fa», ai tempi degli scontri dopo gli accordi separati sui contratti dei metalmeccanici. Tra le tute blu di Bologna e dintorni, infatti, la Fiom fa incetta di iscritti e, se passasse la 'regolá per cui tutto va sottoposto alla loro approvazione, «noi non potremmo mai più fare la nostra attivitá sindacale», avverte Alberani. Intanto, oggi e lunedì i dipendenti della Gd dovranno esprimersi con un referendum e dire se approvano il punto di incontro trovato tra la loro azienda e la Fiom (al momento l'intesa è solo siglata). Fino a ieri ci sono stati tentativi di Fim-Cisl e Uilm-Uil per far ricredere la Gd, ma le cose non sono cambiate. «E da stamattina siamo riuniti per capire quel che è successo» e cosa fare, dice il numero uno Cisl. Non è esclusa la denuncia per condotta antisindacale, ma giá lunedì il presidente di Unindustria, Alberto Vacchi, riceverá una lettera in cui Alberani gli chiede «che ne pensa di quanto successo. Vorrei sapere cosa pensa Unindustria» dato che quel che succede alla Gd «mette in discussione, cancella l'accordo di luglio tra i Cgil-Cisl-Uil e Marcegaglia» sui contratti.

LA FIOM Nessun «contratto separato», ma semplicemente una ipotesi di intesa tra azienda e maggioranza delle Rsu. Danilo Gruppi, segretario delle Cgil di Bologna, prende carta e penna per «ripristinare la veritá dei fatti» sulla Gd, e per placare «l'agitazione di queste ore della Cisl bolognese» che «non mi spiego». L'ipotesi di intesa, dice Gruppi, è ora al vaglio dei lavoratori «che, tra oggi e martedì, voteranno liberamente mediante referendum (come sempre, peraltro)». E «solo a fronte di un esito positivo del voto le singole federazioni di categoria valuteranno se apporre, all'intesa definitiva, anche la loro firma». Dunque, insiste Gruppi, «la Cgil non ha affatto cambiato la propria impostazione, sia in materia contrattuale che in materia di democrazia sindacale». Quanto al merito dell'intesa, «è del tutto destituita di fondamento l'interpretazione secondo cui questa 'discriminerebbe gli altri sindacatì». L'ipotesi d'intesa, spiega il leader Cgil, «definisce una procedura per la quale si ritiene decisivo il parere della maggioranza dei lavoratori sia per la presentazione delle piattaforme che per la stipula degli accordi aziendali». Un «concetto basilare», fa notare Gruppi, e «contenuto proprio nell'accordo interconfederale del 28 giugno scorso». Gli fa eco il segretario generale Fiom, Bruno Papignani: «È assolutamente ingiustificata e incomprensibile l'accusa rivolta alla Gd e a noi di escludere dalle trattative le altre sigle sindacali, considerato che l'ipotesi di accordo è stata sottoscritta alla fine di una lunga trattativa condotta unitariamente».

Marco Madonia
25 novembre 2011

venerdì 25 novembre 2011

Pdci e Prc: Differenze rientrate

Intervista di Lanfranco Palazzolo a Paolo Ferrero da "La voce Repubblicana".
Per leggerla, clicca QUI .

Segnalato da Nicola Melloni

Italia, Germania, euro, eurobond. Per farla breve, crisi.

Selezione curata da Nicola Melloni

"A porte chiuse una Merkel più flessibile"
Franco Fubini dal "Corriere". Clicca QUI per leggere l'articolo.

"Anche la Germania scopre la paura"
Tonia Mastrobuoni da "La Stampa". Clicca QUI per leggere l'articolo.

"Europa colonia dei mercati"
Intervista a Fausto Bertinotti di Pietro Sansonetti, da "Gli altri". Clicca QUI per leggere l'articolo.

"L'Italia come un discount, ecco il sogno della grande Germania"
Intervista a Emiliano Brancaccio di Nanni Riccobono da "Gli altri". Per leggere l'articolo clicca QUI .

Il gigante dai piedi d'argilla

Di Mario Deagli da "La stampa"
Segnalato da Nicola Melloni

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Essendo figlia di un pastore luterano, e probabilmente buona conoscitrice della Bibbia, Angela Merkel farebbe bene a riflettere sul sogno raccontato dal re Nabucodonosor nel «libro di Daniele»: una grande e magnifica statua con la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre di bronzo e i piedi in parte d’argilla e in parte in ferro viene colpita proprio nei piedi da un masso che rotola giù dalla montagna. E la statua si sgretola subito in piccolissimi frammenti che vengono spazzati via dal vento.

Molti operatori economici stanno vivendo le lunghe e angosciose giornate finanziarie di questa settimana nella paura che l’Europa, e in particolare l’euro, che ne costituisce forse la migliore realizzazione, possa far la fine della statua di Nabucodonosor, ossia franare in poco tempo e quasi senza preavviso. Sempre più frequentemente li sfiora il sospetto che i piedi d’argilla non siano necessariamente rappresentati dalla Grecia e dagli altri inaffidabili Paesi «meridionali» ma si possano trovare invece nella stessa Germania e possano costituire la debolezza nascosta di quel gigante dalla testa d’oro che è l’Europa.

Si tratta di un gigante con poche forze, come si può constatare dagli sviluppi finanziari degli ultimi mesi.

Anche ieri, attorno al tavolo delle consultazioni di Strasburgo, si sono confrontate solo debolezze diverse. La debolezza francese derivante da una crescita, apparentemente inarrestabile, del debito pubblico che l’ha portato ad aumentare di circa un terzo (dal 60 all’80 per cento del prodotto interno) durante i quattro anni della crisi finanziaria; la debolezza di un’Italia soffocata da meccanismi inefficienti di decisione politica e di redistribuzione del reddito che, nell’ultimo decennio, hanno tarpato le ali a quasi tutte le iniziative di crescita; e infine la debolezza tedesca apparsa improvvisamente con aste finanziarie in cui non si riescono a collocare tutti i titoli pubblici.

Appena sei mesi fa, la Germania veniva gratificata del titolo di «locomotiva d’Europa» e sembrava aver trovato la ricetta per uscire dalla crisi. Ci si accorge ora che la locomotiva era in realtà un vagone, che era stata essa stessa trainata dalla ripresa mondiale. La Germania è infatti vissuta sulle esportazioni e non su un aumento ordinato e consistente dei consumi interni. E dopo avere all’incirca raggiunto il livello produttivo precedente la crisi, la locomotiva si è fermata con una frenata brusca e inattesa, con la disoccupazione che torna a crescere dopo due anni e gli ordini all’industria, specialmente dall’estero che tornano a diminuire.

Insieme con la disoccupazione, in Germania cresce da tempo l’inquietudine, come testimonia la lunga fila degli insuccessi nelle elezioni locali del partito del cancelliere o dei suoi alleati. E questo spiega il persistente rifiuto del cittadino medio - che ha ancora un ricordo lontano, ma vivido di un nonno o un prozio che è stato rovinato dall’inflazione degli Anni Trenta - di pensare in grande. Dopo aver sostenuto a lungo l’Unione Europea, con contributi finanziari superiori ai benefici immediati, assicurando così il proprio e l’altrui sviluppo, dopo avere incassato la riunificazione al prezzo di sostituire il marco con l’euro, la Germania ha smesso di avere progetti di respiro veramente ampio.

Si è ripiegata su se stessa, si sente probabilmente più tedesca e meno europea. Il tedesco è una delle poche lingue in cui la stessa parola («Schuld») significa indifferentemente «debito» e «colpa». Dietro al ricordo della grande inflazione affiora forse questa memoria ancora più profonda, per cui il debitore è un colpevole e un debitore a rischio di insolvenza è come un appestato. Forse così si contribuisce a spiegare l’atteggiamento non lineare della Germania nei confronti della Grecia, un Paese la cui insolvenza danneggerebbe fortemente le banche tedesche, e che pure la Germania esita a salvare, negando il suo assenso ad azioni incisive della Banca Centrale Europea.

Si potrà anche sostenere che Angela Merkel sia abile quanto il suo predecessore, Helmut Kohl, che riuscì a riunificare il paese. Non le mancano, infatti, decisione e capacità argomentativa ma non sembra esser dotata delle grandi visioni del futuro di Kohl e, prima di lui, di Adenauer, Ehrhard e altri cancellieri tedeschi. Preferisce rivedere, in maniera taccagna, i conti della spesa piuttosto che domandarsi perché si fa la spesa. Non le importa di pronunciare una raffica di «no», come ha fatto ieri sugli Eurobond, apparentemente senza una visione complessiva dei circuiti finanziari, senza rendersi conto che un leader europeo, come aspira a essere, deve tenere in serbo qualche sì. Deve indicare una strada percorribile e non predicare principi inflessibili.

C’è forse qualcosa di simbolico nel fatto che l’attuale presidente del Consiglio italiano sia arrivato ieri all’incontro di Strasburgo con cronometrica puntualità, mentre il suo predecessore aveva abituato i colleghi internazionali a mal sopportati ritardi. In ritardo, invece, è arrivato il cancelliere tedesco. Colpa, ahimè, di un guasto all’aereo: nemmeno l’efficientissima Germania è perfetta. Se Angela Merkel riuscirà a prendere coscienza delle imperfezioni tedesche, che i mercati in questi giorni le hanno pesantemente ricordato, forse c’è speranza per l’Europa.

giovedì 24 novembre 2011

La lezione spagnola di Izquierda unida

 Ramon Mantovani
23/11/2011

E' impossibile capire il risultato delle elezioni spagnole sulla base delle semplificazioni che i mass media italiani hanno usato per descriverlo. Meglio soffermarsi, anche se sommariamente, sui dati reali.

Il Partito Popolare passa da 10 milioni 300 mila voti a 10 milioni 800 mila voti (dal 39,94 al 44,62 %) e da 154 a 186 seggi, ottenendo la maggioranza assoluta del Congresso.

Il Psoe da 11 milioni 300 mila voti precipita a 7 milioni di voti (dal 43,87 % al 28,73 %) e da 169 seggi a 110.

Izquierda Unida da 970 mila voti a 1 milione 700 mila voti (dal 3,77 % al 6,93 %) e da 2 a 11 seggi.

L'astensione cresce più di due punti e si attesta con le bianche e le nulle al 31 %.

Vale la pena di segnalare l'ottima affermazione del quarto partito che si è presentato in tutti i collegi dello stato spagnolo: l'Unione di Progresso e Democrazia (considerato in Spagna simile ai radicali italiani) che si attesta sul 4,69 % (aveva l'1,19) avendo quadruplicato i voti (da 300 mila a 1 milione 100 mila) e quintuplicato i seggi (da 1 a 5). Tengono o crescono tutti i partiti indipendentisti e nazionalisti catalani e baschi, sia di destra sia di sinistra. In particolare la coalizione della sinistra indipendentista Amaiur nei Paesi Baschi ottiene 333 mila voti, pari al 24 % (1,37 % in ambito statale) e 7 seggi. Fallisce il progetto del partito verde Equo che, avendo rifiutato di coalizzarsi con Izquierda Unida, insieme ad altre tre liste minori di estrema sinistra disperde circa trecentomila voti.

Come si vede non è il Pp ad aver vinto le elezioni, sebbene abbia mobilitato tutti i propri elettori, al contrario del Psoe che con tutta evidenza li ha persi, nell'ordine, verso l'astensione, Izquierda Unida, Up y d, e verso diverse formazioni indipendentiste e locali. È il Psoe ad aver perso in modo clamoroso, con il peggior risultato della sua storia. A nulla è valso aver condotto una campagna elettorale molto di sinistra, soprattutto volta a denunciare le vere intenzioni del Pp circa i tagli ai servizi sociali e le privatizzazioni. Il Pp ha avuto buon gioco ad occultarle abilmente ricordando, per tutta la campagna elettorale, i tagli alle pensioni, ai servizi sociali e gli enormi favori alle banche e agli speculatori edilizi operati dal governo Zapatero. Del resto Psoe e Pp pochi mesi fa avevano insieme riformato la costituzione per introdurre il principio liberista del pareggio di bilancio, ed avevano insieme impedito in parlamento che gli oppositori potessero ottenere la convocazione di un referendum popolare sulla modifica costituzionale. Naturalmente è più che prevedibile che il Pp dal governo fornisca una versione più estremista e più ingiusta socialmente della politica economica neoliberista del Psoe, e che metta in discussione le poche buone cose prodotte dal Psoe sui diritti civili. La folla che festeggiava la vittoria del Pp la sera dello scrutinio, non per caso inalberava striscioni contro la legge sull'aborto e sui matrimoni gay.

Il risultato di Izquierda Unida è un grandissimo successo, soprattutto se si pensa all'effetto sulle scelte degli elettori del sistema elettorale spagnolo. Infatti, non essendoci un collegio unico nazionale per ripartire i seggi proporzionalmente, succede che nella stragrande maggioranza dei collegi locali gli elettori siano indotti a votare per i due partiti maggiori o per il partito locale più forte. Per il semplice motivo che sanno in partenza che Izquierda Unida non ha nessuna possibilità di raggiungere il quoziente pieno che è quasi sempre superiore al 10 % e spesso al 20 %. Un deputato di Izquierda Unida vale più di 150 mila voti, 230 mila uno di UP y D, 63 mila uno del Psoe, 58 mila uno del Pp, 48 mila uno di Amaiur.

Izquierda Unida si è riscattata da una lunga crisi dovuta a divisioni interne laceranti e a una direzione che aveva adottato una troppo morbida linea di opposizione alla prima legislatura del governo Zapatero. Negli ultimi tre anni, senza produrre scissioni e senza paralizzarsi in lotte intestine, ha saputo rilanciarsi come movimento politico sociale unitario ed ha riconquistato la credibilità di sempre nelle lotte operaie e sociali. A questa rinascita ha dato un contributo fondamentale il Partito comunista, che è e resta la forza largamente maggioritaria in Izquierda Unida, che comunque ultimamente si è notevolmente allargata nella sua composizione e che, bisogna ricordarlo, funziona sulla base del principio una testa un voto, senza alcuna spartizione interna fra i partiti nazionali o locali che la compongono.

Nei paesi del Sud Europa sotto attacco speculativo si combatterà, nei prossimi mesi ed anni, una battaglia decisiva contro la dittatura del mercato e per la democrazia. La Spagna ci dice che la sinistra quando sa essere coerente con i contenuti anticapitalisti, unita nel rispetto di tutte le identità e autonoma dai liberalsocialisti, può tornare a contare oggi per vincere domani.

Ora Berlino dovrà riflettere

Stefano Lepri
24/11/2011
La stampa

Ora è il momento per agire. La crisi dell’area euro comincia a toccare la Germania; nessun Paese ne è più al riparo. Agire significa un salto in avanti nella costruzione dell’Europa. Molti politici nazionali recalcitrano davanti a una «cessione di sovranità» da parte degli Stati; si tratta in realtà di ampliare, non di ridurre gli spazi di democrazia. L’unico modo di ridare potere ai cittadini sulla sorte delle loro economie, strappandolo ai mercati finanziari, è di trasferire ad autorità europee elettive quelle competenze che i governi nazionali non hanno più la forza di esercitare.

Mario Monti saprà bene tutto questo, quando si siederà oggi al tavolo con Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Saprà anche che è molto difficile riuscirci. Al punto in cui siamo arrivati, solo una politica economica centralmente concordata potrà salvare l’euro.

Dovrà essere democraticamente legittimata; non affidata alla legge del più forte del «metodo intergovernativo» di fatto ridottosi alla guida dell’ineguale duo franco-tedesco, responsabile di molte decisioni tardive e maldestre degli ultimi mesi.

Senza intaccare le sovranità nazionali, servirebbero a poco gli eurobond , i titoli di debito comuni ora riproposti anche da José Barroso e da Herman van Rompuy. Senza un imponente trasferimento di sovranità, inoltre, la Germania non li accetta; e ha ragione anche contro sé stessa, perché l’attuale assetto dei poteri non garantisce nessun Paese membro dell’euro contro l’eventuale irresponsabilità degli altri, Germania compresa.

C’è solo da sperare che l’esito negativo dell’asta dei titoli di Stato tedeschi ieri porti consiglio a Berlino. Vengono offerte spiegazioni tecniche complesse; ma restiamo all’evidenza. Paradossalmente, si tratta di una scelta assai sensata, da parte di mercati che tutto sono stati tranne che razionali negli ultimi mesi: perché mai si dovrebbero comprare titoli che rendono meno del 2%, se occorre il 2% solo per compensare l’aumento dei prezzi? Che ci si guadagna?

Finora, i Bund , ovvero i titoli tedeschi, avevano successo perché si sperava in un guadagno di capitale in caso di rottura dell’euro: sarebbero stati convertiti in un nuovo marco tedesco capace di rivalutarsi. Ora si è capito che una rottura dell’euro avrebbe conseguenze tanto devastanti, nell’Europa e nel mondo, da danneggiare anche la Germania. Proprio perché ragionevolmente oggi si dubita perfino del debito della Bundesrepublik, l’occasione è ottima per far riflettere la Bundesbank e l’ establishment tedesco, rimasti quasi soli nel mondo a credere che i mercati siano sempre razionali.

Solo con un salto in avanti politico si potrà superare l’ostacolo che impedisce alla Banca centrale europea di usare appieno tutti i suoi strumenti. La Germania e i Paesi nordici ricordano sempre che interventi massicci di acquisto dei titoli italiani e spagnoli violerebbero i Trattati europei: per dissuadere i governi dallo scialacquare, la Bce è vincolata a mantenere la «stabilità della moneta». Questo non va cambiato. Tuttavia lo stesso articolo 127 dei Trattati, in un altro comma, affida alla Bce il compito di tutelare anche la stabilità finanziaria.

Si tratta di intendersi. Se l’euro si rompe, sicuramente la stabilità finanziaria non sarà tutelata, con dissesti di grandi banche e altri orrori. Nel giro di poco tempo, verrebbe a mancare anche la stabilità monetaria, perché avremmo una recessione così pesante da ridurre i prezzi, esito pericolosissimo. Speriamo che i tedeschi lo capiscano, e non confermino quel luogo comune secondo cui, loro soli, ritengono che Fiat justitia, pereat mundus sia un motto di cui fregiarsi con orgoglio.

La deriva tedesca

Barbara Spinelli
24/11/2011
Repubblica

L MODO in cui la Germania sta guidando la Ue ha una fisionomia sempre più inquietante, e anche molto singolare. È inquietante perché tutte le strategie per far fronte all'attacco contro i paesi più deboli dell'euro sono frutto di filosofie economiche che hanno Berlino come protagonista.

La Banca centrale europea si conforma alle esigenze tedesche, e pur avendo capacità e risorse si rifiuta di calmare l'ansia dei mercati divenendo prestatrice di ultima istanza, non istituzione che innervosisce tutti con il suo imprevedibile dare-non dare. Gli Stati che sono sull'orlo della bancarotta adottano misure di austerità concordate innanzitutto con Angela Merkel. I vertici dell'Unione europea sono costretti a guardare oltre il Reno prima di discutere i propri piani con altri Stati membri.

È una situazione che comincia a creare un vasto malessere - non solo in Italia, Grecia o Spagna ma anche nell'esecutivo guidato da Barroso - perché Berlino ha una condotta ferma e contemporaneamente inattiva: guida senza davvero guidare, pone veti e tentenna, mette fretta ed è lenta a muoversi. Questo è inquietante, e al tempo stesso estraniante.

È come se Berlino non vedesse che il rischio bancarotta incombe non solo sugli Stati ammalati del loro debito, ma sull'intera zona euro e anche su se stessa. Come se la propria salute economica, peraltro più fragile di quello che si pensi (ieri erano sotto attacco anche i titoli tedeschi) rendesse la Repubblica federale cieca a quel che accade in una casa comune di cui è pur sempre parte, dalla quale dipende in maniera esistenziale, senza la quale non potrebbe vantare gli odierni successi economici.

Successi che i dirigenti tedeschi ascrivono giustamente alla propria saggezza economica, alla propria politica del lavoro, alle proprie abitudini risparmiatrici, ma che non esisterebbero se il Paese non fosse circondato da nazioni alleate che acquistano le sue merci, e le acquistano solo se il loro crescere e il loro consumare non vengono punitivamente strozzati. Una nazione che uscisse da Eurolandia e riafferrasse la mitica Deutsche Mark che ha sacrificato, si troverebbe con una moneta talmente rivalutata da strangolare le proprie esportazioni e il proprio benessere.

Quel che è perturbante, nella strategia del governo Merkel, è l'idea che è andata ossificandosi sulla crisi dell'euro e dei debiti sovrani nell'Unione. Più che un'idea è un'ideologia, che nella cultura economica nazionale ha radici lontane, risalenti al periodo fra le due guerre. È la cosiddetta dottrina della "casa in ordine" (Haus in Ordnung), secondo la quale ogni Stato deve prima raddrizzare le storture e far pulizia nel proprio recinto, e solo dopo può contare sulla cooperazione e la solidarietà internazionali.

Secondo i più dogmatici sostenitori di tale dottrina, nelle sedi internazionali e perfino nell'unione sovranazionale europea non si decidono politiche comuni: ci si controlla a vicenda, perché ognuno a casa propria faccia bene i compiti.

Non a caso, nel discorso tenuto un anno fa al Collegio europeo di Bruges, Angela Merkel ha fatto l'elogio dell'Europa intergovernativa, criticando velatamente il metodo comunitario: che è il metodo grazie al quale le consultazioni e i coordinamenti si trasformano in comuni decisioni prese a maggioranza, senza veti di singoli Stati.

È con armi puramente ideologiche che il governo tedesco, pur dominando un'Europa cui non vuole rinunciare, pur denunciando le forze centrifughe che la minacciano, sta contribuendo di fatto a renderla imbelle, ad accentuarne il disfacimento.

Tutto quello che potrebbe salvare la zona euro (la messa in comune del debito, gli eurobond reclamati ieri da Barroso e Monti, i poteri maggiori dati alla Commissione, la trasformazione della Banca centrale di Francoforte in un organo che garantisca gli Stati in difficoltà e pur disciplinandoli li aiuti a crescere, come fa la Federal Reserve in America), Berlino sta ostacolandolo. Sono progetti che guarda con sospetto, come se davanti a sé vedesse un eretico che urla sguaiato.

Mario Monti sta tentando una difficile battaglia su questi temi, e fa bene a ricordare che il pericolo è di "mandare a fondo l'euro", non questo o quel Paese. Fa bene a battersi per un'Unione dotata di organi sovranazionali meno dipendenti dai singoli Stati, e a rammentare che i governi europei devono imparare a decidere insieme, oltre che consultarsi in configurazioni bilaterali o triangolari.

La Germania, lo sappiamo, vive di storia e di politica della memoria. Furono i due ingredienti della sua straordinaria rinascita democratica, nel dopoguerra, ma può accadere che una virtù si irrigidisca e diventi a tal punto straboccante da mutarsi in vizio. Troppa virtù distrugge la virtù, troppa memoria dei disastri dell'inflazione distrugge le economie che nell'immediato, oggi, sono minacciate da recessioni e disuguaglianze sociali più che dall'inflazione. Quel che il Paese sta dimenticando, è la rovina che gli cadde addosso fra le due guerre: la politica delle Riparazioni, che le potenze vincitrici del '14-18 imposero alla stremata Repubblica di Weimar. In uno dei suoi libri più politici (Le conseguenze economiche della guerra), John Maynard Keynes pronunciò nel 1919 parole infuocate contro una logica castigatrice nei confronti del Paese vinto che avrebbe annientato  -  scrisse  -  le sue capacità di ripresa economica e dunque la sua democrazia nascente.

Accadde esattamente quello che scrisse: la pace degenerò in "pace di Cartagine". Oggi è la Germania il paese vincitore. Sarebbe assurdo che proprio lei praticasse, verso i partner dell'Unione, la funesta politica delle Riparazioni e del Delenda Carthago. È uno scandalo che si torni all'epoca fra le due guerre e non al secondo dopoguerra, quando Keynes fu infine ascoltato e da una vera cooperazione internazionale nacquero gli accordi di Bretton Woods e il Piano Marshall.

La Germania non fu sempre com'è oggi. Fu tra i paesi più europeisti, grazie a figure visionarie come Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl. Grandioso fu Kohl quando rinunciò, contro il parere della Bundesbank, a quello che era stato, per decenni, l'unico simbolo di sovranità di un paese diviso e orfano di sovranità politica e militare: il marco. Il Cancelliere democristiano fece questo passo nella speranza non solo di far accettare l'unificazione nazionale ma di ottenere un'Europa politica più forte, che tuttavia non venne.

Non venne neanche la messa in comune dell'atomica francese. Mitterrand si rivelò un alleato infido, se non traditore. L'inacidirsi dei governanti tedeschi ha inizio allora, e le responsabilità di Parigi  -  che oggi corre dietro a Berlino illudendosi di specchiarsi nella sua grandezza  -  sono enormi.

Nel frattempo l'inacidimento è cresciuto, man mano che le condotte economiche degli Stati dell'Unione hanno cominciato a divergere. A quel punto la forza della Germania è apparsa chiara, la sua leadership in Europa sempre più forte. Ma è una leadership singolare, appunto. È rifiutando di agire che agisce nel più confuso, lento, pernicioso dei modi. La sua forza è retrattile, ma è pur sempre una forza. Ci sono momenti nella storia in cui il peccato di omissione e di inerzia è più grave del peccato attivo, aggressivo. Proprio questo momento stiamo vivendo.
 

Serve il rigore ma anche la crescita

Jacques Delors
24/11/2011

La crisi del debito che ha colpito la maggior parte dei paesi occidentali pone l´Unione europea e i suoi Stati membri di fronte a un arduo dilemma: la necessità di impegnarsi in programmi di risanamento dei conti pubblici e di riforme strutturali e al contempo di mantenere le prospettive di crescita, per poter offrire un orizzonte di speranza ai cittadini.
"Agli Stati il rigore, all´Europa la crescita": la formula di Tommaso Padoa-Schioppa non occulta la necessità di affrontare questo dilemma a livello nazionale, mettendo in atto riforme profonde che tengano conto degli obiettivi di riduzione delle diseguaglianze e dunque di promozione di una crescita sostenibile. Essa insiste, comunque, nel valore aggiunto degli interventi dell´Ue, al quale bisogna prestare maggiore attenzione per ragioni economiche, sociali e politiche.
Oggi come ieri, le regole del patto di stabilità devono naturalmente essere rispettate, sia per il bene delle generazioni future che per evitare di cederne la sovranità ai creditori privati. Ma l´Ue non può limitarsi a essere una Comunità che proscrive i deficit eccessivi imponendo dei vincoli, siano essi giuridici o politici. Oltre a ciò, e come complemento al ruolo essenziale rivestito da ognuno dei suoi Stati membri, l´Unione europea deve contribuire a rispondere alle sfide della disoccupazione, che ha superato il 10% a livello europeo, e del rallentamento globale dell´attività economica. L´Ue deve anche mostrarsi, oltre i confini dell´eurozona, come una fonte di crescita: essa si trova in una posizione migliore per agire in questo campo a fronte delle decisioni cruciali che dovrà prendere nel 2012.
È necessario quindi che l´Ue completi l´approfondimento del mercato unico, a distanza di vent´anni dalla sua creazione nel 1992, allo scopo di realizzare tutte quelle potenzialità di crescita e di occupazione che sono ancora parzialmente sfruttate. Come ha sottolineato Mario Monti nel suo rapporto del 2010, c´è ancora molta strada da percorrere, in particolare in materia di servizi, economia digitale e mercati pubblici. Ed è del tutto possibile percorrerla nell´ambito di un approccio equilibrato, in cui vengano appropriatamente integrati gli obiettivi sociali e il rispetto dell´ambiente. Nel suo Atto per il mercato unico, la Commissione ha stimato una crescita potenziale del Pil di almeno il 4% nel corso del prossimo decennio e ha recentemente proposto di accelerare il ritmo in questa prospettiva: spetta agli Stati membri e al Parlamento europeo cogliere questa prima sfida.
L´Ue deve inoltre trarre profitto dalla futura adozione del suo nuovo quadro finanziario pluriennale, dal momento che il bilancio comunitario è prima di tutto uno strumento di solidarietà, ma anche di crescita. Questo bilancio deve dunque contribuire maggiormente allo sviluppo dei programmi europei di ricerca ma anche accompagnare meglio l´approfondimento del mercato unico, in particolare mediante il finanziamento d´infrastrutture d´interesse comune nel campo dei trasporti, dell´energia e della comunicazione. In questo senso, è essenziale che i 50 miliardi di euro proposti dalla Commissione per il periodo 2014-2020 vengano approvati nel 2012 e vengano in seguito impegnati insieme a finanziamenti privati per incrementare l´effetto di leva del bilancio dell´Ue. Ma è allo stesso modo essenziale che, dopo aver deciso di un´utilizzazione più flessibile e anticipata dei fondi strutturali destinati ai paesi in difficoltà, l´Ue mobiliti immediatamente una somma equivalente al servizio delle infrastrutture d´interesse comune. Questo gesto eccezionale servirebbe a riequilibrare l´effetto depressivo delle misure di risanamento finanziario in corso.
A complemento di questi interventi di bilancio, è necessario infine che l´Ue, e più concretamente la Banca Europea per gli investimenti (Bei), s´impegnino direttamente nell´emissione di obbligazioni destinate al finanziamento delle spese future. L´emissione di queste obbligazioni può infatti rispondere agli enormi bisogni d´investimento individuati in Europa e permettere lo sviluppo di tali spese, sul punto di essere sacrificate in parecchi Stati membri. La Banca europea per gli investimenti è ben posizionata per emettere tali obbligazioni e portare così la propria capacità di finanziamento annua a 200 miliardi di euro (contro gli 80 attuali), sulla base di un consolidamento del capitale e delle garanzie apportate dagli Stati membri.
Mercato interno, bilancio comunitario, obbligazioni europee: la mobilitazione congiunta di questi 3 strumenti può generare un aumento di attività quasi immediato e importanti benefici in termini di crescita endogena a medio termine. Questo "pacchetto per la crescita" è più che mai indispensabile per scongiurare quelle incidenze economiche e sociali altamente negative indotte dal prolungarsi nel tempo del torpore europeo, ma anche per rafforzare la legittimità dell´Ue agli occhi degli Stati membri e dei suoi cittadini.
L´autore è stato presidente della Commissione europea.
Attualmente è componente del consiglio direttivo del Comitato europeo di orientamento Notre Europe, di cui il testo che pubblichiamo è la dichiarazione annuale     

Il re nudo

 24/11/2011
Guido Tabellini

Come in molti avevano previsto, le decisioni prese nell'ultimo vertice europeo di poche settimane fa si sono rivelate del tutto inadeguate ad arrestare la crisi. Cosa fare per interrompere il dilagare della sfiducia?
La risposta ufficiale dei politici tedeschi è: dovete rimettere in ordine i conti pubblici e riformare l'economia. Non c'è dubbio che ciò vada fatto; è impensabile che i Paesi del Sud Europa escano dalla crisi se non riescono a recuperare la capacità di crescita e a risanare la finanza pubblica.
Ma sarà sufficiente tutto questo? Ormai è sempre più evidente che la risposta è negativa. Le riforme nazionali sono una condizione necessaria ma non sufficiente per arrestare la crisi. La ragione è che la sfiducia non riguarda più il singolo Paese, ma l'intera zona euro.
Ormai si è diffusa la convinzione che le fondamenta stesse dell'euro sono viziate da un difetto costitutivo. In tutti i Paesi avanzati, la banca centrale ha il compito di tutelare la stabilità finanziaria, agendo da prestatore di ultima istanza. La Bce questo compito può svolgerlo solo a metà: essa può offrire liquidità alle banche in difficoltà, ma non può farlo nei confronti degli Stati dell'euro. Il risultato è che i Paesi ad alto debito pubblico sono lasciati in balia dei mutamenti di umore dei mercati. Fino a che la fiducia dura, tutto va bene. Se per qualche ragione la fiducia vacilla, il peso del debito diventa presto insostenibile.
Questo problema è aggravato da un secondo grave difetto nelle fondamenta dell'euro: la politica monetaria è stata centralizzata, ma la supervisione bancaria è rimasta una competenza nazionale. E oggi le autorità di supervisione non si fidano più l'una dell'altra. La sfiducia è così diffusa, che i supervisori nazionali impongono alle banche di non trasferire liquidità fuori dal loro Paese, per non trovarsi esposte nell'eventualità che la crisi degeneri. Siamo arrivati al paradosso di avere una moneta unica, con 17 mercati bancari e del debito pubblico segmentati dai confini nazionali, che praticano tassi di interesse diversi alla loro clientela. Una situazione del genere non può durare a lungo.
È difficile immaginare un ritorno della fiducia se questi difetti costitutivi non sono corretti. Bisogna ammettere che abbiamo sbagliato. Le istituzioni monetarie dei Paesi avanzati sono il frutto di una lenta e graduale evoluzione, di processi di prova ed errore in seguito ad eventi quali la grande recessione degli anni 30 e gli shock inflazionistici degli anni 70. I padri fondatori dell'euro sono stati troppo ambiziosi: essi hanno disegnato al tavolino un sistema particolarmente innovativo, e poi lo hanno blindato in un trattato internazionale. Ora stiamo scoprendo che, nelle circostanze estreme scatenate dalla crisi finanziaria del 2008, il sistema non riesce più a funzionare. È giunto il momento di ammetterlo, dichiarando apertamente che il trattato va rivisto.
L'asta di titoli di stato tedeschi che ieri è rimasta invenduta è l'ultima conferma di quanto diffusa sia ormai la sfiducia.
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Ma paradossalmente, questo evento potrebbe aiutare a sbloccare la situazione, per due ragioni. Primo, perché ha reso evidente a tutti che, nonostante la sua retorica, la Bundesbank di fatto continua ad agire come prestatore di ultima istanza quanto meno in via temporanea nei confronti dello Stato tedesco. I titoli non venduti in asta infatti sono stati assorbiti dalla Bundesbank, che da sempre svolge questo ruolo per garantire la liquidità dei titoli tedeschi. Secondo, perché potrebbe anticipare il momento in cui anche la Bce si convince che la stabilità finanziaria, e non la stabilità dei prezzi, è la sfida su cui si gioca la sopravvivenza della moneta unica. Se anche la banca centrale tedesca è costretta a comprare il debito del suo Stato, vuol dire che è davvero giunto il momento di una svolta nella politica monetaria. Non solo tagliando più decisamente i tassi di interesse, ma anche generalizzando l'acquisto di titoli di Stato in una politica di quantitative easing analoga a quella adottata tempo addietro dalla Federal Reserve americana per sostenere l'economia e immettere liquidità.
I prossimi mesi (e forse le prossime settimane) saranno cruciali per capire se vi sarà una svolta nell'impostazione e nelle fondamenta della politica monetaria europea. Se questo non accadrà, la crisi è destinata ad aggravarsi.

c'é una sola via d'uscita


 24/11/2011 Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Ieri i titoli di Stato austriaci a dieci anni rendevano oltre 1,6 punti percentuali più degli analoghi titoli tedeschi. L'Austria ha un debito inferiore di dieci punti a quello della Germania: nessuno quindi pensa che i suoi titoli siano più a rischio di quelli tedeschi. Quel differenziale riflette il timore che l'euro si spacchi e l'incertezza su che cosa accadrebbe all'Austria: adotterebbe il Deutsche Mark o ritornerebbe allo scellino? L'euro è sull'orlo dell'abisso.

L'incertezza sul futuro della moneta unica aumenta la volatilità dei mercati europei e induce i grandi investitori americani ad abbandonare investimenti in euro, fuggendo ora anche dai titoli tedeschi. Ieri l'asta dei Bund è stata sottoscritta solo grazie alla Bundesbank che ha acquistato il 40% dei titoli offerti da Berlino. Nel prossimo anno, nei Paesi dell'euro, scadono circa 500 miliardi di obbligazioni bancarie: se le banche non riuscissero a rifinanziarsi l'euro potrebbe non sopravvivere. I mercati temono che si finisca proprio lì.

A questo punto c'è un solo modo per salvare l'euro: un intervento forte della Bce. È una soluzione molto problematica, cui si è giunti a causa dell'irresponsabilità di governo dopo governo in parecchi Paesi europei, compreso il nostro. Ma a questo punto non vi è altra soluzione. Intervenire sui flussi, ad esempio cominciando a emettere eurobond, cioè titoli garantiti dall'Ue, anche se fosse possibile agirebbe troppo lentamente.

Bisogna intervenire sugli stock: agire sui flussi non basta più. La Bce può acquistare quantità illimitate di titoli riducendo la volatilità e riportando i rendimenti ai livelli pre-crisi. Non di tutti i Paesi, solo di quelli, come Italia e Spagna, che non sono insolventi. In realtà basterebbe che la Bce annunciasse l'intenzione di stabilizzare i rendimenti a un determinato livello: di acquisti veri e propri ne dovrebbe fare pochi.

Molti dicono che questo è il peccato originale dell'euro: non avere una banca centrale che si comporta come la Federal Reserve americana. Ma la differenza è che la Fed non compra i titoli emessi dagli Stati (dal Texas, o dalla California), solo quelli del governo federale. Non solo, ma la grande maggioranza degli Stati americani ha un vincolo di bilancio in pareggio. Titoli federali in Europa non esistono perché non esiste un ministro del Tesoro dell'Eurozona e i Paesi europei possono emettere debito a piacimento, senza tener conto dei costi per l'Unione nel suo complesso.

L'Ue, attraverso la Commissione, ha poteri esecutivi in due sole aree: la politica della concorrenza e quella monetaria. In ogni altra area le decisioni richiedono l'accordo dei governi. Per salvare l'euro occorre estendere i poteri esecutivi dell'Ue alla politica di bilancio, non alle singole misure o al mix fra spesa e imposte, che deve rimanere prerogativa dei parlamenti nazionali, ma ai conti pubblici aggregati: evoluzione del debito e saldi di bilancio. Certo, è una rivoluzione, e ci rendiamo conto che è necessario cambiare i trattati europei, ma a questo punto è la sola via per salvare l'euro e i 60 anni che abbiamo dedicato a costruire l'Europa.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi